La leucemia linfatica cronica (LLC) è una patologia linfoproliferativa, ovvero una neoplasia del sistema linfatico, caratterizzata da un accumulo di linfociti B nel sangue periferico, nel midollo osseo e negli organi linfatici (linfonodi e milza).Nel mondo occidentale la LLC rappresenta la più comune forma di leucemia con un’incidenza nei paesi occidentali pari a 2-6 casi/anno su 100.000 abitanti, mentre è rara in Giappone e nei paesi orientali, ove l’incidenza è <1 caso/100.000 abitanti. La patologia è più frequente nel sesso maschile rispetto al femminile (M/F = 1,5-2/1).
L’età mediana di insorgenza è compresa tra i 67 ed i 72 anni. L’incidenza della LLC incrementa con l’età, infatti oltre il 40% delle LLC è diagnosticata in soggetti con più di 75 anni, mentre meno del 10% prima dei 50 anni. Tuttavia negli ultimi anni sembra aumentare anche il numero di diagnosi in età precoce ed in stadio iniziale di malattia, a causa del più frequente numero di esami del sangue effettuati dalla popolazione generale.
Quali sono le cause della leucemia linfatica cronica?
Attualmente non sono stati riconosciuti fattori predisponenti l’insorgenza di LLC. Non può essere escluso un ruolo delle radiazioni ionizzanti anche se lo studio della popolazione sopravvissuta all’incidente nucleare di Chernobyl ha mostrato un aumento d’incidenza di molte forme di leucemia, ma non di LLC. Una possibile associazione tra LLC e fattori genetici è stata suggerita dalla diversa incidenza della patologia tra etnie differenti e dal fatto che, in caso di migrazione, la popolazione migrante mantenga l’incidenza della patologia simile al paese d’origine. Inoltre nei parenti di primo grado di soggetti affetti da LLC il rischio di sviluppo della malattia e di altre sindromi linfoproliferative (linfoma di Hodgkin e non-Hodgkin) è superiore rispetto a quello della popolazione generale di pari età e sesso. Tuttavia, a differenza di altre patologie tumorali, il substrato genetico della LLC consiste nell’intervento di più geni con diverso potenziale oncogenico.
Pur non essendo note le cause della LLC, numerosi progressi sono stati compiuti negli ultimi anni nella comprensione dei meccanismi che vengono alterati nelle cellule tumorali. Recenti studi hanno dimostrato che i primi eventi nello sviluppo di linfociti B clonali avvengano già nella cellula staminale ematopoietica multipotente: la genesi della leucemia avviene a causa di alterazioni genomiche specifiche che portano alla perdita di porzioni infinitesime del materiale genetico (geni codificanti micro RNA); queste trasformazioni permettono alla cellula di acquisire un’aumentata resistenza ai meccanismi intrinsechi di “apoptosi”, la cosiddetta “morte programmata”, conferendo dunque una sopravvivenza aumentata alle cellule alterate. L’accumulo di questi elementi nel sangue periferico, negli organi linfatici (linfonodi e milza) e nel midollo osseo è all’origine delle caratteristiche cliniche tipiche di questa patologia.
I linfociti B sono cellule deputate alla sintesi e secrezione delle immunoglobuline, previa trasformazione in cellule molto specializzate, le plasmacellule. L’ontogenesi o formazione, dei linfociti B avviene in parte nel midollo e in parte negli organi linfoidi secondari (linfonodi e milza). La cellula coinvolta nella proliferazione neoplastica nei pazienti affetti da LLC-è il linfocita B giunto a maturazione ma ancora in una fase antecedente alla trasformazione finale in plasmacellula. Nell’immagine qui a fianco, è riportato un linfocita B maturo nel sangue periferico. | ![]() |
Accumulo di linfociti B maturi visibili nello striscio di sangue periferico di un paziente affetto da LLC-B. | ![]() |
La sopravvivenza della cellula leucemica dipende inoltre dall’interazione tra il clone patologico ed il microambiente in cui è inserito: l’interazione avviene tramite molecole di superficie che queste cellule espongono e questo “dialogo” è così in grado di supportare la vita della cellula.
Inoltre, la stimolazione della cellula clonale da parte di antigeni (molecole che attivano una risposta immunitaria), mediata dall’interazione con il recettore presente sui linfociti B (BCR), è anch’essa alla base della trasformazione leucemica e dell’espansione del clone alterato. Il “BCR signaling”, via di trasduzione del segnale interna alla cellula, caratteristica dei linfociti B, costituisce il bersaglio di una nuova classe di farmaci, inibitori delle kinasi.
La presenza di linfociti B clonali può anche precorrere l’insorgenza di una linfocitosi evidenziabile all’esame emocromocitometrico: questa condizione viene definita come “Linfocitosi B Monoclonale” (Monoclonal B Lymphocytosis – MBL) e talora può predisporre all’insorgenza della Leucemia Linfatica Cronica con un tasso di evoluzione da MBL a LLC dell’1-2%.
Quando sospettare una leucemia linfatica cronica.
Quali sono i sintomi?
Nella maggioranza dei pazienti (70%) la diagnosi di Leucemia Linfatica Cronica viene effettuata in completa assenza di sintomi, in seguito al riscontro di linfocitosi ad un esame emocromocitometrico eseguito per altri motivi. Dovrà essere esclusa la presenza di infezioni sistemiche prima di eseguire esami specifici atti ad identificare l’eventuale presenza di una popolazione linfocitaria clonale. Talvolta la presenza di ipogammaglobulinemia può emergere dall’elettroforesi delle sieroproteine anche in questi stadi iniziali.
Un aumento volumetrico dei linfonodi nelle diverse stazioni (linfoadenomegalia), o delle dimensioni della milza (splenomegalia) o del fegato (epatomegalia), dovuti all’accumulo di linfociti patologici a livello dei suddetti organi del sistema linfatico, può caratterizzare il decorso di questa patologia: anche in questo caso la presenza di infezioni sistemiche deve essere esclusa prima di procedere con indagini specifiche per identificare eventuali disordini linfoproliferativi.
Il progredire della malattia si può accompagnare all’insorgenza di sintomi correlati all’invasione del midollo osseo da parte di linfociti neoplastici ed alla citopenia che ne consegue: la stanchezza associata a pallore cutaneo e palpitazioni sono una conseguenza dell’anemia (riduzione del numero di globuli rossi o eritrociti), le manifestazioni emorragiche muco-cutanee sono secondarie alla piastrinopenia (riduzione delle piastrine), mentre l’immunodeficienza intrinsecamente correlata con la malattia e la neutropenia (riduzione del numero dei granulociti neutrofili) predispongono allo sviluppo di infezioni.
In un 5% dei pazienti la presenza di anemia o piastrinopenia può invece essere dovuta alla produzione di anticorpi rivolti contro piastrine o globuli rossi del soggetto ed alla conseguente aumentata distruzione di questi elementi: queste condizioni rappresentano disordini autoimmuni (anemia emolitica e piastrinopenia autoimmune) o più raramente l’associazione di entrambe (sindrome di Fisher-Evans) che possono accompagnarsi alla Leucemia Linfatica Cronica.
Anche i cosiddetti sintomi sistemici, come la perdita di peso, la presenza di febbre persistente, l’astenia marcata e le sudorazioni abbondanti notturne, possono caratterizzare gli stadi più avanzati della malattia; questi sintomi, essendo generici, vanno attribuiti alla Leucemia solo dopo aver escluso eventuali altre cause sottostanti.
Inquadramento diagnostico.
Quali esami è necessario eseguire?
Una volta posto il sospetto di LLC è necessario eseguire una serie di accertamenti utili a formulare una diagnosi di certezza ed a valutare l’eventuale estensione della malattia.
Esami necessari per la definizione diagnostica secondo i criteri dell’International Working Group on CLL (iwCLL) redatti nel 2008 e recentemente revisionati nel 2015 sono:
Indagini utili per la definizione dell’estensione della patologia e il rischio prognostico:
Ulteriori indagini utili per la valutazione della patologia prima dell’inizio del trattamento ematologico specifico:
La prognosi.
Esistono caratteristiche cliniche e biologiche della malattia in grado di influenzare la sopravvivenza e la risposta alla terapia?
Dal punto di vista prognostico la LLC presenta un decorso molto eterogeneo. In alcuni soggetti la malattia infatti mostra un andamento estremamente indolente con alterazioni ematologiche stabili per anni senza alcuna terapia, mentre in altri soggetti la crescita del clone leucemico è relativamente rapida con una sopravvivenza di pochi anni. Studi recenti hanno dimostrato che questa variabilità clinica dipende da differenze biologiche. La definizione alla diagnosi delle caratteristiche cliniche e biologiche, predittive dell’evolutività nel tempo della malattia, costituisce oggi uno step fondamentale sul quale impostare le successive decisioni terapeutiche.
Fattori prognostici clinici.
Stadiazione clinica.I sistemi di stadiazione, basati sull’identificazione delle variabili note che influiscono negativamente sull’andamento della malattia, hanno rappresentato il primo strumento di valutazione prognostica della LLC. Nella tabella di seguito sono rappresentati i due sistemi di staging attualmente in uso proposti da Rai e da Binet e le corrispondenti mediane di sopravvivenza per ciascuno stadio.
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Gli stadi avanzati (B e C secondo Binet; III e IV secondo Rai), comprendono il 40-45% dei casi e comportano una significativa riduzione dell’aspettativa di vita. Negli stadi iniziali (A di Binet; 0-I-II di Rai) la sopravvivenza è nettamente migliore, ma si osserva una notevole eterogeneità di decorso. Infatti, una quota di pazienti ha una aspettativa di vita non compromessa dalla malattia, mentre una quota pari al 40% progredisce entro 2 anni ed ha una sopravvivenza globale significativamente ridotta rispetto a quanto atteso per l’età. Vi sono però altri parametri che consentano di predire più accuratamente la prognosi individuale di un paziente in stadio iniziale.
Markers sierici. L’antigene CD23 solubile, la beta2microglobulina e la timidin kinasi (TK), sono stati individuati come fattori in grado di predire la sopravvivenza o il tempo libero da progressione; tuttavia studi clinici sono ancora necessari per convalidarne l’utilizzo nella pratica clinica.
Fattori prognostici biologici.
Più recentemente sono stati individuati nuovi parametri biologici prognosticamente significativi, indipendenti dai parametri clinici convenzionali sopra citati:
Lo stato mutazionale dei geni IgVH (regione variabile delle catene pesanti delle immunoglobuline). In base allo stato mutazionale si distinguono oggi due sottotipi di Leucemia Linfatica Cronica B: una frazione di casi (50% circa) con IgVH in stato non mutato, cioè senza mutazioni somatiche, ed una frazione con mutazioni somatiche (mutati). La situazione non mutata si associa ad una malattia più estesa (stadio più avanzato) e comporta una prognosi più sfavorevole. L’impatto prognostico negativo dello stato non mutato è evidente anche nei pazienti in stadio clinico iniziale. Inoltre, lo stato non mutato si associa più frequentemente ad alterazioni cromosomiche sfavorevoli.
La presenza di anomalie citogenetiche all’analisi citogenetica e alla FISH. La delezione 17p13 (5-8% dei pazienti mai trattati) e la delezione 11q23 (25% dei pazienti mai trattati in stadio avanzato, mentre nel 10% in stadio precoce) hanno significato prognostico sfavorevole. La delezione 13q14 (55%) è invece favorevole se isolata (sopravvivenza simile a quella dei pazienti con cariotipo normale). Il significato prognostico della trisomia 12 (10-20% dei casi) è attualmente dibattuto. Le alterazioni sfavorevoli si riscontrano più spesso in pazienti in stadio avanzato, ma anche in una certa quota di pazienti in stadio A (15% circa). In tabella di seguito è riportata la correlazione tra le principali lesioni citogenetiche-molecolari e le caratteristiche clinico-biologiche della malattia.
Oltre al significato prognostico, l’individuazione della delezione 17p13 attualmente è fondamentale per la scelta terapeutica ora che sono a disposizione farmaci in indicazione per questo specifico sottogruppo.
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La presenza di alterazioni citogenetiche in numero maggiore uguale a 3 viene definito come cariotipo complesso. Recentemente è emerso il ruolo di questa condizione nel predire una scarsa risposta sia alla terapia convenzionale che ai nuovi farmaci inibitori.
La presenza di mutazioni genetiche individuate con tecniche di biologia molecolare (PCR). La ricerca della mutazione di TP53 è attualmente indicata in tutti i pazienti candidati a ricevere un trattamento. Il significato prognostico sfavorevole di questa alterazione, riscontrata nel 4-37% dei pazienti, è sovrapponibile a quello della delezione 17p13 e frequentemente si associa ad essa (>80% dei casi). Attualmente nei pazienti con TP53 mutato è indicato il trattamento con i nuovi farmaci inibitori delle kinasi.
Nuove tecniche di sequenziamento del genoma hanno permesso di identificare altri geni frequentemente mutati nella LLC come NOTCH1, MYD88, ATM, SF3B1, FBXW/, POT1 e CHD2. Il ruolo di queste mutazioni nella patogenesi della malattia ed il loro significato prognostico è attualmente oggetto di studio; la ricerca di queste mutazione non è ancora indicata nella pratica clinica.
Terapia.
E’ sempre necessario impostare una terapia?
La Leucemia Linfatica Cronica è considerata un disordine oncoematologico indolente, ovvero a lenta crescita. Diversi studi sono stati condotti per individuare il corretto timing di inizio del trattamento; al momento non vi sono evidenze che mostrino un beneficio nel trattare pazienti in stadio precoce, in assenza di sintomi specifici legati alla malattia.
Specifiche condizioni, elencate nelle linee guida dell’International Working Group on CLL (iwCLL 2015), indicano la necessità d’intraprendere una terapia; nei restanti casi viene consigliato un monitoraggio clinico e strumentale.
I criteri per il trattamento sono i seguenti:
Al momento, in assenza delle suddette condizioni, non vi sono markers genetici o cromosomici che definiscano un’indicazione al trattamento.
Quali sono gli obiettivi del trattamento?
Nonostante l’approccio terapeutico alla patologia sia notevolmente cambiato negli ultimi 20 anni, trasformandosi da puramente palliativo ad eradicante, la LLC rimane una malattia incurabile.
Per poter scegliere il trattamento più adeguato, basandosi non solo sulle caratteristiche prognostiche di malattia ma valutando il soggetto nel suo insieme, sono stati definiti tre gruppi di pazienti affetti da LLC sulla base delle condizioni fisiche, delle comorbidità e dell’aspettativa di vita indipendente dalla diagnosi:
Quali sono le possibilità terapeutiche nella cura della leucemia linfatica cronica?
Per molti anni l’approccio terapeutico al paziente affetto da LLC si è basato essenzialmente sull’impiego di farmaci chemioterapici a scopo palliativo associati ad una bassa percentuale di risposte per lo più transitorie e senza alcun impatto obiettivo sulla sopravvivenza: gli agenti alchilanti, quali il chlorambucil o ciclofosfamide, hanno rappresentato il trattamento di scelta nei pazienti con malattia in progressione. Successivamente la disponibilità di chemioterapici ad elevata efficacia quali gli analoghi delle purine (fludarabina, cladribina e pentostatina) ha soppiantato l’utilizzo degli agenti alchilanti nei pazienti giovani e “fit”.
Nelle ultime due decadi inoltre, la maggior consapevolezza dei meccanismi intrinseci della patologia e l’esperienza precedente nei linfomi non Hodgkin, hanno portato allo sviluppo degli anticorpi monoclonali (AcMo), farmaci biologici target con alta specificità ed affinità per gli antigeni delle cellule tumorali. Ciò ha permesso per la prima volta di introdurre il concetto di terapie “bersaglio”.
Il passo successivo è stato quindi l’utilizzo di regimi chemioimmunoterapeutici, ovvero la combinazione di anticorpi monoclonali (AcMo) con farmaci chemioterapici tradizionalmente utilizzati per la LLC: ciò ha radicalmente modificato la prognosi della patologia e reso possibili obiettivi terapeutici mai contemplati prima di allora, come l’ottenimento dell’eradicazione della malattia tramite la negativizzazione della malattia minima residua (MMR).
La combinazione di tre farmaci, fludarabina, ciclofosfamide e rituximab (FCR), rappresenta ad oggi l’opzione terapeutica più efficace nel paziente giovane e “fit” poiché è stata la prima in grado di dimostrare un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza in questa categoria. Grazie a studi con osservazione prolungata è stato inoltre dimostrato che la risposta ottenuta con FCR, somministrato in prima linea di trattamento, sia duratura nel tempo, specie in pazienti con fattori prognostici favorevoli.
Tuttavia occorre considerare che il maggior numero di pazienti affetti da LLC è rappresentato da individui di età avanzata (l’età mediana alla diagnosi si attesta intorno ai 70 anni). La recente pubblicazione di risultati di studi clinici internazionali ha mostrato un’aumentata tossicità ed una ridotta efficacia nell’utilizzo di FCR in soggetti di età superiore ai 65 anni: per questi soggetti un differente schema immunochemioterapico di combinazione, rituximab e bendamustine, si è dimostrato più adeguato.
L’età avanzata spesso si accompagna all’insorgenza di comorbidità, è necessario dunque bilanciare efficacia e tossicità della terapia ematologica proposta per offrire un trattamento il più possibile “su misura”. In questa categoria di pazienti infatti il controllo dei sintomi, una buona qualità di vita e, se possibile, un allungamento della sopravvivenza, deve essere privilegiato rispetto all’ottenimento di una profondità della risposta.
Un’ulteriore categoria di pazienti, definiti come a rischio molto elevato (“ultra high risk”), in cui l’immunochemioterapia convenzionale si è dimostrata meno efficace, è rappresentata da coloro che presentano fattori prognostici biologici sfavorevoli, quali la mutazione di TP53, la delezione 17p13, o la refrattarietà o la precoce ricaduta dopo un precedente regime immunochemioterapico intensivo contenente fludarabina.
In questo scenario, l’avvento delle terapie target che sfruttano un meccanismo d’azione puramente biologico e mirato, rappresenta senza dubbio una novità esaltante per la modalità del tutto nuova di concepire un trattamento “intelligente” nella LLC.
A differenza degli agenti citotossici e degli AcMo infatti, l’azione di questi nuovi agenti è specificatamente indirizzata alle vie di trasduzione del segnale cellulare che intervengono nei meccanismi di sopravvivenza e proliferazione delle cellule leucemiche. Attualmente l’esperienza più significativa in questo gruppo di farmaci è rappresentata dagli inibitori delle vie di segnale del recettore delle cellule B (BCR).
Agenti in monoterapia
Chemioimmunoterapia
Trattamento con inibitori delle kinasi
Inibitori del B-cell receptor (BCR)
La via del segnale del BCR è fondamentale per la differenziazione, la proliferazione, la sopravvivenza e l’apoptosi cellulare nel linfocita B. La via di BCR è sostenuta da diversi enzimi che mediano la cascata del segnale a livello citoplasmatico, tra questi ritroviamo gli enzimi della fosfoinositil 3-kappa (PI3K), la tirosin kinasi splenica (SYK), la Bruton tirosin kinasi (BTK) e la fosfolipasi C gamma 2. L’iperattivazione del segnale di BCR, insieme ad altre vie, è alla base del processo patogenetico della LLC. Sulla base di tali evidenze, lo sviluppo di trattamenti target, mirati alle vie di segnale di BCR, costituiscono una strategia terapeutica promettente nella LLC.
Come si valuta la risposta alla terapia?
La risposta ematologica è definita secondo i criteri proposti dall’iwCLL 2008 rivisti nel 2015, universalmente adottati.
Remissione Completa (RC)
Risposta Parziale (RP)
Risposta Parziale con Linfocitosi
Questa categoria di risposta è stata recentemente definita per i pazienti in terapia con inibitori del BCR e comprende i casi in cui siano presenti tutti criteri di PR eccetto la riduzione dei linfociti circolanti. In questi pazienti la persistenza o l’incremento della nota linfocitosi rappresenta un effetto del farmaco e non una progressione di malattia.
Progressione di malattia
Almeno uno dei seguenti criteri:
trasformazione in istologia più aggressiva (Sindrome di Richter) evidenziata all’esame bioptico del linfonodo o del tessuto coinvolto;
Malattia stabile
La malattia minima residua (MMR)
L’eradicazione della malattia è un obiettivo auspicabile, pertanto tramite nuove tecnologie, come la citometria a flusso multicolore e la PCR real-time quantitativa, è possibile identificare una quota di malattia residua (MMR) anche quando i convenzionali esami clinici, strumentali e di laboratori siano negativi. Numerosi studi clinici sono in atto per stabilire il valore del raggiungimento dell’MMR negatività; al momento sebbene vi siano già evidenze che correlano significativamente l’MMR e l’outcome clinico in termini di sopravvivenza e sopravvivenza libera da progressione non vi è indicazioni ad effettuare il monitoraggio della MMR al di fuori di trials clinici.
Qual’ è il ruolo del trapianto nel trattamento della LLC?
Negli ultimi decenni il miglioramento della definizione biologica della malattia e la messa a punto di nuove strategie terapeutiche hanno permesso di migliorare il numero, la durata e la qualità delle risposte ottenute. Nello stesso tempo i progressi delle tecnologie trapiantologiche e l’implementazione delle terapie di supporto hanno consentito un notevole miglioramento dei risultati ottenuti con tale procedura, principalmente in termini di riduzione della mortalità correlata alle complicanze.
Il trapianto di midollo osseo allogenico ha dimostrato di poter indurre risposte cliniche prolungate, con progressiva negativizzazione del residuo leucemico in una parte dei casi grazie all’effetto immunomediato. La sopravvivenza a 5 anni è di circa il 50% e la mortalità legata al trapianto del 20% circa, dovuta principalmente alle complicanze infettive ed alla reazione delle cellule trapiantate contro l’organismo ospite (graft versus host disease).
L’opzione trapiantologica deve essere presa in considerazione e discussa in pazienti selezionati tra coloro nei quali la malattia sia risultata resistente o recidivata e che abbia risposto ai nuovi farmaci inibitori (ibrutinib o idelalisib) in alternativa alla prosecuzione della terapia, specialmente in caso di presenza di delezione 17p/mutazioni di TP53. Candidati a un approccio trapiantologico sono inoltre i pazienti giovani e in buone condizioni che non abbiano risposto o che siano progrediti dopo terapia di prima linea con inibitori del BCR signaling
Trapianto allogenico da donatore familiare HLA compatibile. Nonostante il buon controllo della malattia che ottiene l’autotrapianto di midollo osseo, la gran parte dei pazienti è destinata a recidivare nell’arco di tempo di alcuni anni. Con lo scopo di migliorare questi risultati, è stato introdotto nel trattamento della LLC il trapianto di midollo osseo allogenico. I dati iniziali relativi all’impiego di questo tipo di procedura hanno dimostrato che il trapianto allogenico è in grado di indurre una remissione completa duratura anche nei pazienti refrattari ai trattamenti convenzionali. Il trapianto allogenico deve la sua elevata attività terapeutica non tanto all’azione dei farmaci chemioterapici, ma all’instaurarsi di una vera e propria immunoterapia adottiva esercitata dal sistema immunitario del donatore contro le cellule leucemiche del ricevente (GVL). Infatti, l’allotrapianto non si limita a sostituire il midollo osseo del paziente con quello di un donatore sano ma comporta anche il trasferimento di un nuovo sistema immunitario dal donatore al ricevente.
L’indicazione al trapianto allogenico dipende da numerosi fattori, quali l’età del paziente e le caratteristiche prognostiche della malattia. Attualmente il trapianto allogenico può essere considerato come una possibile scelta terapeutica in pazienti con età = 65 anni, con donatore familiare HLA identico e con caratteristiche prognostiche altamente sfavorevoli.
Trapianto allogenico a ridotta intensità (non mieloablativi). Fino a pochi anni fa era opinione comune che la chemioterapia di preparazione al trapianto allogenico, il cosiddetto regime di condizionamento, fosse un presupposto indispensabile per distruggere le cellule tumorali dell’ospite e per fare spazio fisicamente al nuovo midollo che veniva trapiantato. Questa visione non teneva conto del ruolo fondamentale che riveste il sistema immunitario del donatore; infatti la dimostrazione dell’attività svolta dalle cellule immunocompetenti del donatore, infuse con il trapianto, per il controllo e l’eradicazione delle cellule tumorali residue dell’ospite, ha portato in questi ultimi anni ad un nuovo e affascinante concetto di allotrapianto con riduzione di intensità dei protocolli di condizionamento, il cosiddetto allotrapianto a ridotta intensità. E’ un particolare tipo di trapianto caratterizzato dalla somministrazione di farmaci ad attività prevalentemente immunosoppressiva e con una tossicità d’organo trascurabile, o comunque ridotta rispetto ai regimi di condizionamento convenzionali. Lo scopo è quello di permettere ugualmente un buon attecchimento delle cellule staminali allogeniche del donatore, con un duplice risultato: ridurre i rischi di tossicità e quindi di mortalità associata al trapianto e mantenere una buona efficacia terapeutica sulla patologia tumorale.
I dati più recenti mostrano come il trapianto di midollo osseo allogenico non mieloablativo abbia sostanzialmente raggiunto questi obiettivi ed il suo impiego sta entrando nella routine di numerosi centri ematologici di avanguardia. In effetti in questi ultimi anni la procedura di allotrapianto a ridotta intensità è stata sempre più utilizzata, soprattutto in considerazione dei minori effetti collaterali rispetto al trapianto allogenico convenzionale. Riducendo le complicanze legate alla procedura trapiantologica può quindi essere offerta una possibilità di cura anche a pazienti con età compresa tra i 65 e i 70 anni e pazienti più giovani con patologie concomitanti (co-morbidità) per i quali il trapianto allogenico convenzionale può risultare fortemente controindicato. Il breve periodo di osservazione non ci consente di affermare che questa procedura darà a lungo termine i risultati del trapianto allogenico convenzionale; al momento comunque rappresenta un’opzione promettente per il trattamento di alcune neoplasie ematologiche come la LLC, i linfomi ed il mieloma multiplo.
Trapianto allogenico da donatore da banca. Per ragioni genetiche, solo un terzo dei pazienti che hanno fratelli o sorelle possiede un donatore familiare compatibile e può pertanto ricevere un trapianto di midollo osseo allogenico. Nei rimanenti casi, qualora fosse presente l’indicazione ad un trapianto allogenico, è possibile ricercare un donatore HLA identico nei Registri Internazionali dei donatori di midollo osseo. Solo pazienti con determinate caratteristiche e con età inferiore a 70 anni possono accedere ai Registri Internazionali dei donatori di midollo osseo. Una volta individuato un potenziale donatore, evento che si verifica nel 50-70% dei casi, può essere eseguito il trapianto, che, sostanzialmente, è del tutto simile a quanto già descritto nel caso di donatore familiare. Va tuttavia ricordato che nel caso di trapianto da donatore da banca esiste un rischio più elevato di malattia da trapianto contro l’ospite, motivo per cui viene mantenuto un maggiore livello di immunosoppressione. La ricerca del donatore richiede come minimo un periodo di tempo variabile tra i 3 e i 6 mesi, pertanto la possibilità di utilizzare questa opzione va considerata per tempo.
La Divisione di Ematologia dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda
Alla luce di quanto visto fin ora risulta chiaro che una appropriata gestione clinica del paziente è imprescindibile dalla scelta di strategie terapeutiche rischio-correlate. Ne deriva pertanto la fondamentale importanza di una corretta collocazione prognostica del paziente al momento della diagnosi e dell’eventuale indicazione al trattamento. La divisone di ematologia dell’Ospedale di Niguarda garantisce un adeguato inquadramento diagnostico e prognostico dei pazienti affetti da patologie linfoproliferative e in particolare da Leucemia Linfatica Cronica grazie ad una stretta collaborazione e integrazione tra le varie discipline.
Il programma terapeutico viene stabilito sulla base delle caratteristiche cliniche del paziente e dei fattori prognostici della malattia. A questo riguardo la divisione di ematologia dell’Ospedale Niguarda offre le più aggiornate forme di terapia e procedure trapiantologiche garantendo terapie di supporto all’avanguardia. Sono inoltre attualmente attive sperimentazioni cliniche su scala internazionale sull’utilizzo di nuovi farmaci e nuove modalità di cure. Viene garantita in questo modo al paziente la disponibilità di farmaci e strategie terapeutiche innovative.