Leucemia Linfatica Cronica

La leucemia linfatica cronica (LLC) è una patologia linfoproliferativa, ovvero una neoplasia del sistema linfatico, caratterizzata da un accumulo di linfociti B nel sangue periferico, nel midollo osseo e negli organi linfatici (linfonodi e milza).Nel mondo occidentale la LLC rappresenta la più comune forma di leucemia con un’incidenza nei paesi occidentali pari a 2-6 casi/anno su 100.000 abitanti, mentre è rara in Giappone e nei paesi orientali, ove l’incidenza è <1 caso/100.000 abitanti. La patologia è più frequente nel sesso maschile rispetto al femminile (M/F = 1,5-2/1).

L’età mediana di insorgenza è compresa tra i 67 ed i 72 anni. L’incidenza della LLC incrementa con l’età, infatti oltre il 40% delle LLC è diagnosticata in soggetti con più di 75 anni, mentre meno del 10% prima dei 50 anni. Tuttavia negli ultimi anni sembra aumentare anche il numero di diagnosi in età precoce ed in stadio iniziale di malattia, a causa del più frequente numero di esami del sangue effettuati dalla popolazione generale.

Quali sono le cause della leucemia linfatica cronica?
Attualmente non sono stati riconosciuti fattori predisponenti l’insorgenza di LLC. Non può essere escluso un ruolo delle radiazioni ionizzanti anche se lo studio della popolazione sopravvissuta all’incidente nucleare di Chernobyl ha mostrato un aumento d’incidenza di molte forme di leucemia, ma non di LLC. Una possibile associazione tra LLC e fattori genetici è stata suggerita dalla diversa incidenza della patologia tra etnie differenti e dal fatto che, in caso di migrazione, la popolazione migrante mantenga l’incidenza della patologia simile al paese d’origine. Inoltre nei parenti di primo grado di soggetti affetti da LLC il rischio di sviluppo della malattia e di altre sindromi linfoproliferative (linfoma di Hodgkin e non-Hodgkin) è superiore rispetto a quello della popolazione generale di pari età e sesso. Tuttavia, a differenza di altre patologie tumorali, il substrato genetico della LLC consiste nell’intervento di più geni con diverso potenziale oncogenico.

Pur non essendo note le cause della LLC, numerosi progressi sono stati compiuti negli ultimi anni nella comprensione dei meccanismi che vengono alterati nelle cellule tumorali. Recenti studi hanno dimostrato che i primi eventi nello sviluppo di linfociti B clonali avvengano già nella cellula staminale ematopoietica multipotente: la genesi della leucemia avviene a causa di alterazioni genomiche specifiche che portano alla perdita di porzioni infinitesime del materiale genetico (geni codificanti micro RNA); queste trasformazioni permettono alla cellula di acquisire un’aumentata resistenza ai meccanismi intrinsechi di “apoptosi”, la cosiddetta “morte programmata”, conferendo dunque una sopravvivenza aumentata alle cellule alterate. L’accumulo di questi elementi nel sangue periferico, negli organi linfatici (linfonodi e milza) e nel midollo osseo è all’origine delle caratteristiche cliniche tipiche di questa patologia.

I linfociti B sono cellule deputate alla sintesi e secrezione delle immunoglobuline, previa trasformazione in cellule molto specializzate, le plasmacellule. L’ontogenesi o formazione, dei linfociti B avviene in parte nel midollo e in parte negli organi linfoidi secondari (linfonodi e milza). La cellula coinvolta nella proliferazione neoplastica nei pazienti affetti da LLC-è il linfocita B giunto a maturazione ma ancora in una fase antecedente alla trasformazione finale in plasmacellula. Nell’immagine qui a fianco, è riportato un linfocita B maturo nel sangue periferico.
Accumulo di linfociti B maturi visibili nello striscio di sangue periferico di un paziente affetto da LLC-B.

La sopravvivenza della cellula leucemica dipende inoltre dall’interazione tra il clone patologico ed il microambiente in cui è inserito: l’interazione avviene tramite molecole di superficie che queste cellule espongono e questo “dialogo” è così in grado di supportare la vita della cellula.
Inoltre, la stimolazione della cellula clonale da parte di antigeni (molecole che attivano una risposta immunitaria), mediata dall’interazione con il recettore presente sui linfociti B (BCR), è anch’essa alla base della trasformazione leucemica e dell’espansione del clone alterato. Il “BCR signaling”, via di trasduzione del segnale interna alla cellula, caratteristica dei linfociti B, costituisce il bersaglio di una nuova classe di farmaci, inibitori delle kinasi.
La presenza di linfociti B clonali può anche precorrere l’insorgenza di una linfocitosi evidenziabile all’esame emocromocitometrico: questa condizione viene definita come “Linfocitosi B Monoclonale” (Monoclonal B Lymphocytosis – MBL) e talora può predisporre all’insorgenza della Leucemia Linfatica Cronica con un tasso di evoluzione da MBL a LLC dell’1-2%.

Quando sospettare una leucemia linfatica cronica.

Quali sono i sintomi?

Nella maggioranza dei pazienti (70%) la diagnosi di Leucemia Linfatica Cronica viene effettuata in completa assenza di sintomi, in seguito al riscontro di linfocitosi ad un esame emocromocitometrico eseguito per altri motivi. Dovrà essere esclusa la presenza di infezioni sistemiche prima di eseguire esami specifici atti ad identificare l’eventuale presenza di una popolazione linfocitaria clonale. Talvolta la presenza di ipogammaglobulinemia può emergere dall’elettroforesi delle sieroproteine anche in questi stadi iniziali.
Un aumento volumetrico dei linfonodi nelle diverse stazioni (linfoadenomegalia), o delle dimensioni della milza (splenomegalia) o del fegato (epatomegalia), dovuti all’accumulo di linfociti patologici a livello dei suddetti organi del sistema linfatico, può caratterizzare il decorso di questa patologia: anche in questo caso la presenza di infezioni sistemiche deve essere esclusa prima di procedere con indagini specifiche per identificare eventuali disordini linfoproliferativi.
Il progredire della malattia si può accompagnare all’insorgenza di sintomi correlati all’invasione del midollo osseo da parte di linfociti neoplastici ed alla citopenia che ne consegue: la stanchezza associata a pallore cutaneo e palpitazioni sono una conseguenza dell’anemia (riduzione del numero di globuli rossi o eritrociti), le manifestazioni emorragiche muco-cutanee sono secondarie alla piastrinopenia (riduzione delle piastrine), mentre l’immunodeficienza intrinsecamente correlata con la malattia e la neutropenia (riduzione del numero dei granulociti neutrofili) predispongono allo sviluppo di infezioni.
In un 5% dei pazienti la presenza di anemia o piastrinopenia può invece essere dovuta alla produzione di anticorpi rivolti contro piastrine o globuli rossi del soggetto ed alla conseguente aumentata distruzione di questi elementi: queste condizioni rappresentano disordini autoimmuni (anemia emolitica e piastrinopenia autoimmune) o più raramente l’associazione di entrambe (sindrome di Fisher-Evans) che possono accompagnarsi alla Leucemia Linfatica Cronica.
Anche i cosiddetti sintomi sistemici, come la perdita di peso, la presenza di febbre persistente, l’astenia marcata e le sudorazioni abbondanti notturne, possono caratterizzare gli stadi più avanzati della malattia; questi sintomi, essendo generici, vanno attribuiti alla Leucemia solo dopo aver escluso eventuali altre cause sottostanti.

Inquadramento diagnostico.

Quali esami è necessario eseguire?
Una volta posto il sospetto di LLC è necessario eseguire una serie di accertamenti utili a formulare una diagnosi di certezza ed a valutare l’eventuale estensione della malattia.
Esami necessari per la definizione diagnostica secondo i criteri dell’International Working Group on CLL (iwCLL) redatti nel 2008 e recentemente revisionati nel 2015 sono:

  • esame emocromocitometrico: deve evidenziare la presenza di linfociti in numero superiore o uguale a 5000/mmc. Per una corretta diagnosi la linfocitosi deve essere presente da almeno 3 mesi. L’osservazione al microscopio dello striscio di sangue periferico mostra tipicamente una linfocitosi costituita da piccoli linfociti di aspetto maturo, con presenza di “ombre nucleari” o “ombre di Gumprecht” (elementi in disfacimento); l’esame microscopico è inoltre utile per escludere la presenza di elementi linfocitari di grossa taglia, chiamati prolinfociti, che se presenti in numero superiore al 55% identificato una differente patologia oncoematologica denominata Leucemia Prolinfocitica.
  • tipizzazione immunologica dei linfociti del sangue periferico (CD19, CD20, CD22, CD23, CD5, FMC7, CD79b, SmIg, catene leggere kappa o lambda, espressione del CD38 e di ZAP70). Le cellule caratteristiche della Leucemia Linfatica Cronica esprimono tipicamente le molecole CD5 CD19 CD20 e CD23, il CD22 risulta debolmente positivo, mentre sono generalmente negativi FMC7 e CD79b. Ogni clone poi può esprimere a bassa intensità un sottotipo di catene leggere sulle Immunoglobuline di superficie (SmIg) che può essere kappa o lambda.


Indagini utili per la definizione dell’estensione della patologia e il rischio prognostico:

  • Rx standard del torace, ecografia dell’addome/TAC total body per la valutazione delle eventuali linfoadenomegalie profonde addominali e mediastiniche.
  • esame emocromocitometrico oltre alla linfocitosi mostra l’eventuale presenza di anemia e/o piastrinopenia che definiscono in senso peggiorativo lo stadio di malattia
  • esami ematochimici di routine comprendenti LDH, beta2-microglobulina, elettroforesi sieroproteica, dosaggio delle immunoglobuline (Ig), test di Coombs.
  • sierologia virale: il riscontro di anticorpi contro HIV, HBV ed HCV può richiedere ulteriori indagini ed eventuale terapia di supporto antivirale in caso di trattamento della patologia ematologica
  • biopsia linfonodale in caso di linfoadenomegalie è indicata solo in presenza di difficoltà diagnostiche o nel sospetto di trasformazione istologica in una malattia più aggressiva (Sindrome di Richter). Nei casi tipici l’istologia è quella di un linfoma linfocitico.

Ulteriori indagini utili per la valutazione della patologia prima dell’inizio del trattamento ematologico specifico:

  • FISH-panel per LLC per la ricerca di trisomia 12, delezione 13q, delezione 11q, delezione 17p
  • ricerca della mutazione del gene TP53
  • riarrangiamento dei geni per le catene pesanti delle Ig per definire lo stato mutazionale e per seguire la malattia minima residua dopo terapia.
  • analisi citogenetica per definire l’eventuale presenza di cariotipo complesso, caratterizzato dalla presenza di un numero di alterazioni superiore o uguale a 3. Questa condizione può predire una scarsa risposta alla terapia sia chemioimmunoterapico che con nuovi farmaci
  • valutazione midollare mediante biopsia osteomidollare è utile per quantificare l’infiltrato di malattia

 

La prognosi.
Esistono caratteristiche cliniche e biologiche della malattia in grado di influenzare la sopravvivenza e la risposta alla terapia?
Dal punto di vista prognostico la LLC presenta un decorso molto eterogeneo. In alcuni soggetti la malattia infatti mostra un andamento estremamente indolente con alterazioni ematologiche stabili per anni senza alcuna terapia, mentre in altri soggetti la crescita del clone leucemico è relativamente rapida con una sopravvivenza di pochi anni. Studi recenti hanno dimostrato che questa variabilità clinica dipende da differenze biologiche. La definizione alla diagnosi delle caratteristiche cliniche e biologiche, predittive dell’evolutività nel tempo della malattia, costituisce oggi uno step fondamentale sul quale impostare le successive decisioni terapeutiche.

Fattori prognostici clinici.
Stadiazione clinica.I sistemi di stadiazione, basati sull’identificazione delle variabili note che influiscono negativamente sull’andamento della malattia, hanno rappresentato il primo strumento di valutazione prognostica della LLC. Nella tabella di seguito sono rappresentati i due sistemi di staging attualmente in uso proposti da Rai e da Binet e le corrispondenti mediane di sopravvivenza per ciascuno stadio.

Mediana sopravvivenza (mesi)
Stadio Rai 0 Linfocitosi assoluta > 15000/mmc + linfocitosi midollare > 40% 150
I Linfocitosi + linfoadenomegalie 101
II Linfocitosi + splenomegalia e/o epatomegalia 71
III Linfocitosi + anemia (Hb < 10 gr/dl) 19
IV Linfocitosi + trombocitopenia (PLT < 100000/mmc) 19
Stadio Binet A Interessamento di meno di 3 aree linfoidi. Assenza di anemia e piastrinopenia 160
B Interessamento di 3 o più aree linfoidi. Assenza di anemia e piastrinopenia 84
C Anemia (Hb < 10 gr/dl) e/o piastrinopenia (PLT < 100000/mmc) 24

 

Gli stadi avanzati (B e C secondo Binet; III e IV secondo Rai), comprendono il 40-45% dei casi e comportano una significativa riduzione dell’aspettativa di vita. Negli stadi iniziali (A di Binet; 0-I-II di Rai) la sopravvivenza è nettamente migliore, ma si osserva una notevole eterogeneità di decorso. Infatti, una quota di pazienti ha una aspettativa di vita non compromessa dalla malattia, mentre una quota pari al 40% progredisce entro 2 anni ed ha una sopravvivenza globale significativamente ridotta rispetto a quanto atteso per l’età. Vi sono però altri parametri che consentano di predire più accuratamente la prognosi individuale di un paziente in stadio iniziale.
Markers sierici. L’antigene CD23 solubile, la beta2microglobulina e la timidin kinasi (TK), sono stati individuati come fattori in grado di predire la sopravvivenza o il tempo libero da progressione; tuttavia studi clinici sono ancora necessari per convalidarne l’utilizzo nella pratica clinica.

Fattori prognostici biologici.
Più recentemente sono stati individuati nuovi parametri biologici prognosticamente significativi, indipendenti dai parametri clinici convenzionali sopra citati:

Lo stato mutazionale dei geni IgVH (regione variabile delle catene pesanti delle immunoglobuline). In base allo stato mutazionale si distinguono oggi due sottotipi di Leucemia Linfatica Cronica B: una frazione di casi (50% circa) con IgVH in stato non mutato, cioè senza mutazioni somatiche, ed una frazione con mutazioni somatiche (mutati). La situazione non mutata si associa ad una malattia più estesa (stadio più avanzato) e comporta una prognosi più sfavorevole. L’impatto prognostico negativo dello stato non mutato è evidente anche nei pazienti in stadio clinico iniziale. Inoltre, lo stato non mutato si associa più frequentemente ad alterazioni cromosomiche sfavorevoli.

La presenza di anomalie citogenetiche all’analisi citogenetica e alla FISH. La delezione 17p13 (5-8% dei pazienti mai trattati) e la delezione 11q23 (25% dei pazienti mai trattati in stadio avanzato, mentre nel 10% in stadio precoce) hanno significato prognostico sfavorevole. La delezione 13q14 (55%) è invece favorevole se isolata (sopravvivenza simile a quella dei pazienti con cariotipo normale). Il significato prognostico della trisomia 12 (10-20% dei casi) è attualmente dibattuto. Le alterazioni sfavorevoli si riscontrano più spesso in pazienti in stadio avanzato, ma anche in una certa quota di pazienti in stadio A (15% circa). In tabella di seguito è riportata la correlazione tra le principali lesioni citogenetiche-molecolari e le caratteristiche clinico-biologiche della malattia.
Oltre al significato prognostico, l’individuazione della delezione 17p13 attualmente è fondamentale per la scelta terapeutica ora che sono a disposizione farmaci in indicazione per questo specifico sottogruppo.

Anomalia geni regioni Citologia Immunofenotipo/
Stato mutazionale IgVH
Caratteristiche clinico/biologiche Frequenza
(FISH)
17p- P53 LLC/PL CD38+++/- sopravvivenza mediana < 5 anni 1-5%
ZAP70+++/- Resistenza agli analoghi delle purine
IgVH non mutato +++/- Sensibilità a Campath
11q- ATM LLC tipica CD38+++/- sopravvivenza mediana 5-10 anni 15-30%
ZAP70++/- Adenopatie profonde e massive
IgVH non mutato +++/- Discreta sensibilità a Rituximab
+12 12q13-15 LLC atipica CD38++/– sopravvivenza mediana 10-15 anni 15-25%
ZAP70+++/- Cattiva sensibilità a Rituximab
IgVH non mutato ++/–
6q- 6q21 LLC atipica CD38+++/- sopravvivenza mediana 5-10 anni 2-5%
IgVH non mutato ++/– Iperleucocitosi; terapia precoce
13q- 13q14 LLC tipica CD38+/— sopravvivenza mediana >15 anni 50%
ZAP70+/— Buona sensibilità a Rituximab
IgVH non mutato +/—

 
La presenza di alterazioni citogenetiche in numero maggiore uguale a 3 viene definito come cariotipo complesso. Recentemente è emerso il ruolo di questa condizione nel predire una scarsa risposta sia alla terapia convenzionale che ai nuovi farmaci inibitori.
La presenza di mutazioni genetiche individuate con tecniche di biologia molecolare (PCR). La ricerca della mutazione di TP53 è attualmente indicata in tutti i pazienti candidati a ricevere un trattamento. Il significato prognostico sfavorevole di questa alterazione, riscontrata nel 4-37% dei pazienti, è sovrapponibile a quello della delezione 17p13 e frequentemente si associa ad essa (>80% dei casi). Attualmente nei pazienti con TP53 mutato è indicato il trattamento con i nuovi farmaci inibitori delle kinasi.
Nuove tecniche di sequenziamento del genoma hanno permesso di identificare altri geni frequentemente mutati nella LLC come NOTCH1, MYD88, ATM, SF3B1, FBXW/, POT1 e CHD2. Il ruolo di queste mutazioni nella patogenesi della malattia ed il loro significato prognostico è attualmente oggetto di studio; la ricerca di queste mutazione non è ancora indicata nella pratica clinica.

Terapia.
E’ sempre necessario impostare una terapia?

La Leucemia Linfatica Cronica è considerata un disordine oncoematologico indolente, ovvero a lenta crescita. Diversi studi sono stati condotti per individuare il corretto timing di inizio del trattamento; al momento non vi sono evidenze che mostrino un beneficio nel trattare pazienti in stadio precoce, in assenza di sintomi specifici legati alla malattia.
Specifiche condizioni, elencate nelle linee guida dell’International Working Group on CLL (iwCLL 2015), indicano la necessità d’intraprendere una terapia; nei restanti casi viene consigliato un monitoraggio clinico e strumentale.

I criteri per il trattamento sono i seguenti:

  • la presenza di anemia e/o piastrinopenia dovute al progressivo coinvolgimento midollare da parte dei linfociti B clonali;
  • splenomegalia massiva o progressiva o sintomatica;
  • linfoadenomegalie massive o progressive o sintomatiche;
  • progressivo incremento della conta linfocitaria (solo se i linfociti > 30.000/mmc) > 50% in 2 mesi oppure raddoppiamento del numero assoluto dei linfociti in un tempo inferiore a 6 mesi;
  • anemia o piastrinopenia immunomediate scarsamente responsive alla terapia con corticosteroidi o ad altro trattamento standard;
  • sintomi sistemici correlati alla patologia ematologica: calo ponderale, indipendente dal regime dietetico, > 10% del peso corporeo nei precedenti 6 mesi; astenia marcata; febbre (TC > 38°C) per almeno 2 settimane in assenza di infezioni clinicamente evidenti; sudorazioni notturne protratte per almeno un mese in assenza di infezioni.

Al momento, in assenza delle suddette condizioni, non vi sono markers genetici o cromosomici che definiscano un’indicazione al trattamento.

Quali sono gli obiettivi del trattamento?
Nonostante l’approccio terapeutico alla patologia sia notevolmente cambiato negli ultimi 20 anni, trasformandosi da puramente palliativo ad eradicante, la LLC rimane una malattia incurabile.
Per poter scegliere il trattamento più adeguato, basandosi non solo sulle caratteristiche prognostiche di malattia ma valutando il soggetto nel suo insieme, sono stati definiti tre gruppi di pazienti affetti da LLC sulla base delle condizioni fisiche, delle comorbidità e dell’aspettativa di vita indipendente dalla diagnosi:

  • “fit” o “go go” sono i pazienti in cui siano assenti comorbidità significative; l’obiettivo terapeutico in questo gruppo è l’ottenimento di una remissione completa e duratura di malattia ed una sopravvivenza prolungata;
  • “unfit” o “slow go” sono gli individui con patologie concomitanti che influiscono sull’aspettativa di vita e nei quali risulta pertanto ragionevole utilizzare terapie meno tossiche o a dosaggio ridotto per ottenere un controllo della malattia senza gravare sulle condizioni generali del soggetto;
  • “fragili” o “no go” sono quei pazienti con un’aspettativa di vita notevolmente ridotta per la presenza di comorbidità significative e che dovrebbero pertanto ricevere unicamente terapia di supporto.

Quali sono le possibilità terapeutiche nella cura della leucemia linfatica cronica?
Per molti anni l’approccio terapeutico al paziente affetto da LLC si è basato essenzialmente sull’impiego di farmaci chemioterapici a scopo palliativo associati ad una bassa percentuale di risposte per lo più transitorie e senza alcun impatto obiettivo sulla sopravvivenza: gli agenti alchilanti, quali il chlorambucil o ciclofosfamide, hanno rappresentato il trattamento di scelta nei pazienti con malattia in progressione. Successivamente la disponibilità di chemioterapici ad elevata efficacia quali gli analoghi delle purine (fludarabina, cladribina e pentostatina) ha soppiantato l’utilizzo degli agenti alchilanti nei pazienti giovani e “fit”.

Nelle ultime due decadi inoltre, la maggior consapevolezza dei meccanismi intrinseci della patologia e l’esperienza precedente nei linfomi non Hodgkin, hanno portato allo sviluppo degli anticorpi monoclonali (AcMo), farmaci biologici target con alta specificità ed affinità per gli antigeni delle cellule tumorali. Ciò ha permesso per la prima volta di introdurre il concetto di terapie “bersaglio”.

Il passo successivo è stato quindi l’utilizzo di regimi chemioimmunoterapeutici, ovvero la combinazione di anticorpi monoclonali (AcMo) con farmaci chemioterapici tradizionalmente utilizzati per la LLC: ciò ha radicalmente modificato la prognosi della patologia e reso possibili obiettivi terapeutici mai contemplati prima di allora, come l’ottenimento dell’eradicazione della malattia tramite la negativizzazione della malattia minima residua (MMR).

La combinazione di tre farmaci, fludarabina, ciclofosfamide e rituximab (FCR), rappresenta ad oggi l’opzione terapeutica più efficace nel paziente giovane e “fit” poiché è stata la prima in grado di dimostrare un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza in questa categoria. Grazie a studi con osservazione prolungata è stato inoltre dimostrato che la risposta ottenuta con FCR, somministrato in prima linea di trattamento, sia duratura nel tempo, specie in pazienti con fattori prognostici favorevoli.

Tuttavia occorre considerare che il maggior numero di pazienti affetti da LLC è rappresentato da individui di età avanzata (l’età mediana alla diagnosi si attesta intorno ai 70 anni). La recente pubblicazione di risultati di studi clinici internazionali ha mostrato un’aumentata tossicità ed una ridotta efficacia nell’utilizzo di FCR in soggetti di età superiore ai 65 anni: per questi soggetti un differente schema immunochemioterapico di combinazione, rituximab e bendamustine, si è dimostrato più adeguato.
L’età avanzata spesso si accompagna all’insorgenza di comorbidità, è necessario dunque bilanciare efficacia e tossicità della terapia ematologica proposta per offrire un trattamento il più possibile “su misura”. In questa categoria di pazienti infatti il controllo dei sintomi, una buona qualità di vita e, se possibile, un allungamento della sopravvivenza, deve essere privilegiato rispetto all’ottenimento di una profondità della risposta.

Un’ulteriore categoria di pazienti, definiti come a rischio molto elevato (“ultra high risk”), in cui l’immunochemioterapia convenzionale si è dimostrata meno efficace, è rappresentata da coloro che presentano fattori prognostici biologici sfavorevoli, quali la mutazione di TP53, la delezione 17p13, o la refrattarietà o la precoce ricaduta dopo un precedente regime immunochemioterapico intensivo contenente fludarabina.

In questo scenario, l’avvento delle terapie target che sfruttano un meccanismo d’azione puramente biologico e mirato, rappresenta senza dubbio una novità esaltante per la modalità del tutto nuova di concepire un trattamento “intelligente” nella LLC.
A differenza degli agenti citotossici e degli AcMo infatti, l’azione di questi nuovi agenti è specificatamente indirizzata alle vie di trasduzione del segnale cellulare che intervengono nei meccanismi di sopravvivenza e proliferazione delle cellule leucemiche. Attualmente l’esperienza più significativa in questo gruppo di farmaci è rappresentata dagli inibitori delle vie di segnale del recettore delle cellule B (BCR).

Agenti in monoterapia

    Farmaci chemioterapici:

  • Agenti alchilanti. Per diversi anni la monoterapia con agenti alchilanti ed in particolare con chlorambucil, è stata considerata il trattamento di elezione nei pazienti con LLC. I vantaggi derivanti dall’utilizzo del chlorambucil includono la ridotta tossicità, il basso costo e la formulazione orale. Gli svantaggi del farmaco consistono invece in una bassa o assente percentuale di remissioni complete e nello sviluppo di effetti collaterali derivanti dal suo utilizzo prolungato, come citopenie prolungate, mielodisplasia e leucemie acute secondarie.
  • Analoghi purinici. Tre analoghi purinici hanno attualmente indicazione nella LLC: fludarabina, pentostatina e cladribina (2cdA). L’utilizzo della fludarabina come singolo agente è supportata dal raggiungimento di migliori risultati in termini di risposta e qualità della risposta quando confrontata con altri regimi contenenti agenti alchilanti o steroidi. Il suo impiego in monoterapia tuttavia non comporta un aumento della sopravvivenza. Allo stesso modo la cladribina in monoterapia ha permesso di ottenere percentuali più elevate di remissioni complete rispetto a chlorambucil e prednisone senza che però questo si traducesse in un incremento della sopravvivenza. Pur non esistendo studi comparativi fra pentostatina ed agenti alchilanti, quest’ultima ha dimostrato un’elevata efficacia ed una tossicità maneggevole nella LLC.
  • Bendamustina. Questo farmaco chemioterapico si colloca tra la categoria degli alchilanti e degli analoghi purinici. La bendamustina, utilizzata per la prima volta nel 1963 ed in seguito confrontata con il chlorambucil in uno studio randomizzato, ha invece dimostrato un vantaggio su quest’ultimo in termini di risposta e sopravvivenza, nonostante una ridotta tossicità.

 

    Anticorpi Monoclonali
    Ad eccezione di ofatumumab, gli AcMo aventi come target CD20 sono attualmente approvati in Europa, solo nel contesto di regimi combinati.

  • Rituximab è un AcMo chimerico, umano e murino, diretto contro il CD 20, e che presenta attività antileucemica grazie ad un’azione citotossica diretta contro il complemento (CDC), mediata da anticorpi (ADCC) e ad un’azione di morte cellulare diretta. Rituximab è risultato efficace come agente singolo nella LLC solo a dosaggi elevati.
  • Ofatumumab, anticorpo monoclonale, interamente umano, con maggiore citotossicità complemento-mediata e simile citotossicità cellulare anticorpo-dipendente rispetto a rituximab, è stato approvato sia dalla Food and Drug Administration (FDA) che dall’ European Medicines Agency (EMA) in monoterapia in pazienti refrattari sia a fludarabina che ad alentuzumab.
  • Obinutuzumab è infine un anticorpo umanizzato e glicoingenierizzato che ha dimostrato risultati sorprendenti in vitro grazie ad un’aumentata affinità di legame per un epitopo di tipo II del CD20, un maggior ADCC e morte cellulare diretta rispetto a rituximab. Il farmaco attualmente non è ancora in commercio in Italia per la LLC.
  • Alemtuzumab è un AcMo ricombinante, umanizzato, diretto contro l’antigene CD52; tale antigene è espresso sulle cellule normali e leucemiche, sui linfociti sia B che T, su monociti e macrofagi ma non sulle cellule staminali ematopoietiche né su eritrociti e piastrine. Alemtuzumab induce la morte cellulare attraverso vari meccanismi inclusi ADCC, CDC ed apoptosi diretta. Nonostante il farmaco abbia dimostrato efficacia in monoterapia, anche in un sottogruppo di pazienti con caratteristiche prognostiche sfavorevoli come delezione 11 q ed anomalie di TP53, ed avesse così ricevuto l’approvazione come terapia di prima linea nella LLC, per decisione della casa farmaceutica produttrice il farmaco è stato rimosso dal commercio nell’agosto 2012 ed attualmente è disponibile solo in uso compassionevole.

Chemioimmunoterapia

    Trattamento dei pazienti “fit”

  • Fludarabina-ciclofosfamide-rituximab (FCR).Studi in vitro hanno evidenziato un’azione sinergica di rituximab con la chemioterapia ed in particolare con la fludarabina. L’associazione fludarabina e rituximab (FR) è stata sperimentata in studi con pazienti non precedentemente trattati ed ha dimostrato una netta superiorità per quanto riguarda il tasso di risposte complete ottenute e la sopravvivenza globale rispetto ai farmaci in monoterapia. La combinazione di diversi agenti chemioterapici, in particolare di un analogo purinico ed un alchilante, come fludarabina e ciclofosfamide (FC), si è dimostrata efficace nel trattamento dei pazienti giovani e “fit”, ed ha portato ad un miglioramento del numero e della qualità delle risposte, e della progressione libera da malattia. L’azione sinergica di rituximab con la chemioterapia e la miglior performance di FC rispetto a fludarabina, è alla base del razionale dello schema FCR. L’utilizzo di questo regime ha permesso di ottenere risultati eccellenti in termini di risposta (ORR: 95%) e qualità della risposta (RC: 70%). Gli stessi eccellenti risultati sono stati confermati dal follow-up dello studio, con una sopravvivenza generale del 77% ed una sopravvivenza libera da malattia del 51% a 6 anni. Anche in pazienti precedentemente trattati FCR rappresenta una valida opzione terapeutica. Il gruppo tedesco ha quindi confrontato, tramite uno studio prospettico e randomizzato (CLL8), l’utilizzo in prima linea di FC ed FCR: la combinazione FCR ha dimostrato non solo un tasso di risposte maggiore quando confrontato con FC (90% vs 80%, di cui RC 44% vs 22%); ma anche per la prima volta, un vantaggio in termini di sopravvivenza intesa come sopravvivenza libera da progressione (51,8 mesi vs 32,8 mesi) ed sopravvivenza globale (84% vs 79% a 37,7 mesi). Il recentissimo update dei dati del CLL8, ha mostrato un beneficio particolare in pazienti con profilo biologico favorevole, ovvero quelli presentanti trisomia del 12, delezione del 13q o stato mutazionale mutato. Come atteso invece, la presenza della delezione 17p13 continua a risultare in un peggior outcome. Risultati simili in pazienti a prognosi favorevole (mutati e non presentanti delezione del 17p o dell’11q) sono stati confermati anche da altre casistiche, nelle quali questa popolazione risultava in remissione dopo oltre 10 anni e presentava un’aspettativa di vita simile alla popolazione generale, suggerendo la possibilità che una particolare categoria di pazienti possa essere addirittura considerarsi”curata” con FCR. Sulla base di questi dati, FCR è attualmente considerato il trattamento di scelta nei pazienti giovani e senza significative comorbidità. La tossicità legata al regime FCR è costituita prevalentemente dall’insorgenza di citopenie, infezioni e dallo sviluppo di neoplasie mieloidi secondarie al trattamento. Con l’intento di attenuare gli effetti tossici di FCR, pur mantenendone i benefici, sono stati testati schemi terapeutici alternativi: tra questi ricordiamo la combinazione di cladribina-ciclofosfamide-rituximab, l’associazione di pentostatina-rituximab-ciclofosfamide, l’associazione ofatumumab con fludarabina-ciclofosfamide o con pentostatina-ciclofosfamide ed infine la combinazione di fludarabina-ciclofosfamide con alemtuzumab.
  • Bendamustina-rituximab (BR). L’esperienza derivante dalla somministrazione di bendamustina come singolo agente, o associata a rituximab (BR) ha dimostrato non solo l’efficacia, ma anche la tollerabilità di questo farmaco, specialmente considerando la ridotta incidenza di neutropenia e di infezioni. Il trial CLL10, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati, mette a confronto in prima linea FCR o BR: dopo un periodo di osservazione di circa 3 anni, il vantaggio di sopravvivenza libera da malattia con FCR non è stato evidenziato nei pazienti con età superiore a 65 anni. In questa categoria oltretutto, la PFS in chi aveva ricevuto BR, è risultata superiore a quella dei pazienti giovani trattati con gli stessi farmaci. Come atteso, la tossicità di bendamustina è risultata molto più maneggevole rispetto a quella della tripletta con una differenza ancora più marcata nei pazienti anziani. La combinazione tra rituximab e bendamustina risulta dunque più indicata, rispetto ad FCR, in pazienti con età superiore a 65 anni.
    Trattamento dei pazienti “unfit”
    Come già discusso, per anni il chlorambucil è risultato il trattamento standard dei pazienti anziani o presentanti comorbidità; questo anche considerando il fatto che nei vari trial, nonostante un miglioramento del numero e della qualità delle risposte, il trattamento con agenti più potenti non ha portato ad un prolungamento della sopravvivenza. Sulla base di questi dati pertanto, negli studi di chemioimmunoterapia nei pazienti con ridotta fitness, il chlorambucil è stato utilizzato come farmaco di associazione all’AcMo.

  • Rituximab-chlorambucil. Due studi, fino ad oggi, si sono focalizzati sulla combinazione di chlorambucil con rituximab. In entrambi, la percentuale di risposta è risultata superiore ai risultati storici di chlorambucil in monoterapia in termini di risposte globali (>80%) e remissioni complete (10 – 18.9%). La PFS è risultata inoltre maggiore con l’aggiunta del rituximab (23.5-34.7 vs < 20 mesi).
  • Obinotuzumab-chlorambucil. Sulla base della provata efficacia dell’associazione di chlorambucil-AcMo e della provata superiorità in vitro di obinutuzumab rispetto a rituximab, è stato disegnato lo studio di fase III CLL11, che mette a confronto chlorambucil in monoterapia con lo stesso agente associato a rituximab o obinutuzumab. Dai risultati dello studio è emerso come entrambi i regimi di chemioimmunoterapia fossero superiori al solo chlorambucil in termini di percentuali e qualità di risposta. Il confronto diretto fra rituximab ed obinutuzumab ha dimostrato un vantaggio di quest’ultimo in termini di risposte globali (rispettivamente 66.1% vs 77.7%); risposte complete (rispettivamente 7% vs 20.7%) e negatività per malattia minima residua (rispettivamente 2.6% vs 19.5%). Oltretutto, il raggiungimento di una migliore risposta si è tradotto in un beneficio sulla PFS sia di entrambi gli AcMo, rispetto alla monoterapia con chlorambucil. I recenti dati conseguenti a 3 anni di osservazione, hanno inoltre stabilito un vantaggio di sopravvivenza di obinutuzumab (ma non di rituximab) rispetto a chlorambucil da solo. Per quanto concerne la tossicità, la neutropenia è risultata più frequente nei bracci di combinazione ma non ha portato ad una differenza significativa nell’incidenza di infezioni severe rispetto alla sola chemioterapia.
  • Ofatumumab-chlorambucil. La combinazione di chlorambucil con ofatumumab è stata valutata in pazienti non precedentemente trattati e non candidabili a terapie fludarabina-based e, anche in questo caso, confrontata con chlorambucil come singolo agente. Come per obinutuzumab, le reazioni infusionali sono state l’evento avverso più frequentemente riportato, seguito dalla mielotossicità, in particolare dalla neutropenia, senza però un incremento di infezioni maggiori. La percentuale di risposte globali e complete è risultata significatamente incrementata dall’aggiunta di ofatumumab (82% con 12% RC vs 69% con 1% RC), con un vantaggio in termini di sopravvivenza libera da progressione (22.4 vs 13.1 mesi). Dopo un follow up mediano di 29 mesi tuttavia, ofatumumab associato a chlorambucil, non ha dimostrato un vantaggio significativo di sopravvivenza rispetto a chlorambucil.
  • Rituximab-bendamustine. La bendamustina, si è dimostrato un farmaco efficace e ben tollerato nei pazienti anziani e“unfit”. Anche negli studi di combinazione con anticorpi monoclonali, sia con rituximab che con ofatumumab, è stata confermata l’elevata efficacia del farmaco ed il suo razionale di utilizzo in una popolazione non candidabile a fludarabina.

Trattamento con inibitori delle kinasi
Inibitori del B-cell receptor (BCR)
La via del segnale del BCR è fondamentale per la differenziazione, la proliferazione, la sopravvivenza e l’apoptosi cellulare nel linfocita B. La via di BCR è sostenuta da diversi enzimi che mediano la cascata del segnale a livello citoplasmatico, tra questi ritroviamo gli enzimi della fosfoinositil 3-kappa (PI3K), la tirosin kinasi splenica (SYK), la Bruton tirosin kinasi (BTK) e la fosfolipasi C gamma 2. L’iperattivazione del segnale di BCR, insieme ad altre vie, è alla base del processo patogenetico della LLC. Sulla base di tali evidenze, lo sviluppo di trattamenti target, mirati alle vie di segnale di BCR, costituiscono una strategia terapeutica promettente nella LLC.

  • Ibrutinib è un inibitore orale del BTK che induce l’inibizione irreversibile dell’enzima a concentrazioni nanomolecolari. In studi pre-clinici, il trattamento con ibrutinib ha dimostrato un’aumentata apoptosi delle cellule leucemiche, un’inibizione della sopravvivenza cellulare e della proliferazione delle cellule antigene-indotta in vitro ed il blocco dei segnali di sopravvivenza forniti esternamente alla cellula tumorale da parte del microambiente. Lo studio che ha portato all’approvazione del farmaco negli Stati Uniti, nel febbraio 2014, ha mostrato il 71% di risposta globale (ORR), in pazienti pretrattati, con una sopravvivenza libera da progressione(PFS) e globale (OS) stimate a 26 mesi del 75% e 83%. L’ottenimento della risposta è avvenuto indipendentemente dalle anomalie citogenetiche (compresa la delezione 17p13), pertanto il farmaco ha ottenuto l’approvazione per il trattamento di pazienti già sottoposti ad almeno una linea di trattamento e per i pazienti con anomalie di TP53 (del(17p) e/o TP53 mutati) candidati alla prima linea. I dati provenienti dai 3 anni di osservazione di questo studio sono stati recentemente pubblicati ed hanno mostrato una ORR del 90% con il 7% di RC. Come atteso, la qualità della risposta in corso di trattamento con ibrutinib, è migliorata nel tempo con una mediana di 21.2 mesi al raggiungimento della RC. Al contrario però, con una più lunga osservazione è emerso come, anche con ibrutinib, pazienti con alterazioni cromosomiche sfavorevoli presentassero peggiori risultati in termini di PFS. La PFS ed OS stimate a 30 mesi nei pazienti con 17p-, sono infatti risultate significativamente inferiori rispetto alla popolazione generale (48% e 65% vs 69% e 79%, rispettivamente). Nonostante ciò, un tale dato di sopravvivenza risulta comunque superiore rispetto a quello di qualsiasi altra combinazione utilizzata in questa categoria di pazienti. Un ulteriore studio effettuato nei pazienti pretrattati ha confrontato ibrutinib con ofatumumab in monoterapia confermando i risultati precedentemente ottenuti: ibrutinib ha portato ad un significativo prolungamento della sopravvivenza rispetto ad ofatumumab in tutte le categorie prognostiche. Al momento, l’esperienza dell’utilizzo di ibrutinib in pazienti mai trattati, è limitato a due studi, entrambi specificatamente indirizzati a pazienti anziani: nel primo studio, dopo un follow up mediano di 22 mesi, il tasso di risposta globale risulta del 71%, incluso il 13% di RC, e PFS ed OS, dopo 3 anni di osservazione, stimate a 30 mesi sono risultate rispettivamente del 96% e 97%; il secondo studio confronta la terapia con ibrutinib a chlorambucil in monoterapia, riportando un tasso di risposte più elevate nel braccio ibrutinib (86% con 4% di RC) rispetto al braccio di confronto (35% con 2% di RC). Dopo un follow up mediano di 18.4 mesi, ibrutinib ha mostrato una PFS significativamente più lunga (non raggiunta vs 18.9 mesi) in tutti i sottogruppi di pazienti. Inoltre il tasso di mortalità è risultato nettamente inferiore nei pazienti trattati con ibrutinib. Diversi trials sono stati condotti per testare la combinazione di ibrutinib con anticorpi monoclonali anti CD20 e con immunochemioterapia (BR) in pazienti pretrattati, con l’ottenimento di risultati promettenti; al momento sono in corso studi di combinazione in pazienti treatment-naive. Negli studi finora effettuati ibrutinib è risultato essere un farmaco orale nel complesso ben tollerato; per quanto riguarda il profilo di sicurezza, la tossicità ematologica, costituita prevalentemente da neutropenia, è risultata limitata e gestibile, mentre gli effetti avversi extraematologici più comuni rilevati sono diarrea, tosse, febbre e nausea. Tuttavia meritano un accenno alcuni peculiari effetti collaterali legati alla terapia con ibrutinib, tra questi l’aumentato rischio di sanguinamenti cutanei e mucosi e la fibrillazione atriale.
  • Idelalisib è un inibitore orale di PI3Kδ, attualmente approvato, in combinazione con rituximab, per i pazienti affetti da LLC in recidiva o refrattari, e per i pazienti mai trattati con aberrazioni di p53. Così come BTK, PI3K è una delle kinasi citoplasmatiche coinvolte nella via di segnale di BCR. In studi preclinici, l’inibizione di PI3Kδ si è dimostrata in grado di indurre l’apoptosi e la riduzione della sopravvivenza delle cellule leucemiche. Nel primo studio condotto con il farmaco in monoterapia in pazienti pretrattati idelalisib ha ottenuto un tasso di risposta globale del 72% con una durata mediana di risposta di 16.2 mesi, una PFS mediana di 15.8 mesi ed un OS a 36 mesi del 75%. Lo studio di combinazione di idelalisib con rituximab o ofatumumab ha mostrato un tasso di risposta globale dell’83% con 3 casi di RC ed un tempo mediano alla risposta di 1.9 mesi. La PFS per l’intera popolazione si è attestata a 20 mesi, l’OS mediana non è stata raggiunta. Nei pazienti con delezione 17p/mutazione p53, la ORR è stata del 73%. La somministrazione di idelalisib è stata sperimentata anche in regimi combinati con chemioterapia (bendamustina o fludarabina o chlorambucil) e chemioimmunoterapia (BR o FR o R-Chlorambucil) con buoni dati di efficacia ma tossicità aumentata. L’approvazione di idelalisib nel luglio 2014 è avvenuta in seguito ai risultati provenienti da uno studio dove il braccio sperimentale con idelalisib associato a rituximab, veniva confrontato con rituximab e placebo in pazienti recidivati precocemente dopo l’ultimo trattamento effettuato: la percentuale di risposte (tutte parziali) è stata dell’88% con idelalisib-rituximab e del 13% con il solo rituximab, la PFS è risultata significativamente maggiore nel braccio con idelalisib rispetto a quello con placebo (rispettivamente 93% e 46%), e questo indipendentemente dalle caratteristiche prognostiche. Gli studi in prima linea in associazione con rituximab, sempre in pazienti con età avanzata, hanno dimostrato un’efficacia sorprendente di idelalisib permettendo di ottenere il 97% di risposte, incluse 10% di RC e, ancora più importante, il 100% di risposte nei pazienti con delezione 17p o mutazioni di p53. A 36 mesi la PFS è stata dell’83% con solo 4 pazienti progrediti per LLC. Idelalisib è risultato complessivamente ben tollerato negli studi clinici. Diarrea, nausea, astenia, iperpiressia e brividi sono risultati gli eventi avversi più comuni riportati. Sono state inoltre riportate reazioni cutanee al farmaco, specie nei casi di associazione con bendamustine e neutropenia. Gli eventi avversi peculiari di idelalisib descritti nei trials clinici effettuati sono diarrea accompagnata talora da colite severa, epatotossicità, polmoniti non infettive e perforazione intestinale.

Come si valuta la risposta alla terapia?
La risposta ematologica è definita secondo i criteri proposti dall’iwCLL 2008 rivisti nel 2015, universalmente adottati.

Remissione Completa (RC)

  • assenza di adenopatie, splenomegalia ed epatomegalia (visita, ecografia, TAC)
  • assenza di sintomi sistemici
  • linfociti inferiori a 4000/mmc
  • neutrofili superiori o uguali a 1500/mmc
  • piastrine superiori a 100.000/mmc
  • Hb uguale o superiore a 11g/dL
  • alla biopsia osteomidollare normale cellularità e infiltrato linfatico inferiore al 30% (non devono essere presenti noduli linfatici)

 
Risposta Parziale (RP)

  • riduzione delle adenopatie pari o superiore al 50%;
  • riduzione della splenomegalia o dell’epatomegalia pari o superiore al 50%;
  • riduzione della linfocitosi pari o superiore al 50%;
  • uno o più dei seguenti:
    • neutrofili pari o superiori a 1500/mmc;
    • piastrine superiori a 100.000/mmc
    • Hb superiore a 11 g/dL

    Risposta Parziale con Linfocitosi
    Questa categoria di risposta è stata recentemente definita per i pazienti in terapia con inibitori del BCR e comprende i casi in cui siano presenti tutti criteri di PR eccetto la riduzione dei linfociti circolanti. In questi pazienti la persistenza o l’incremento della nota linfocitosi rappresenta un effetto del farmaco e non una progressione di malattia.

    Progressione di malattia
    Almeno uno dei seguenti criteri:

    • comparsa di una nuova linfoadenomegalia misurabile o incremento dimensionale > 50% di una linfoadenomegalia già presente all’inizio del trattamento;
    • comparsa di splenomegalia o epatomegalia o incremento dimensionale di milza e fegato superiore al 50% se di dimensioni già patologiche pre-trattamento;
    • incremento della linfocitosi superiore o uguale al 50%;
    • trasformazione in istologia più aggressiva (Sindrome di Richter) evidenziata all’esame bioptico del linfonodo o del tessuto coinvolto;

    • comparsa di una nuova citopenia (anemia, piastrinopenia, neutropenia) correlata alla LLC

    Malattia stabile

    • non RP né progressione.

    La malattia minima residua (MMR)
    L’eradicazione della malattia è un obiettivo auspicabile, pertanto tramite nuove tecnologie, come la citometria a flusso multicolore e la PCR real-time quantitativa, è possibile identificare una quota di malattia residua (MMR) anche quando i convenzionali esami clinici, strumentali e di laboratori siano negativi. Numerosi studi clinici sono in atto per stabilire il valore del raggiungimento dell’MMR negatività; al momento sebbene vi siano già evidenze che correlano significativamente l’MMR e l’outcome clinico in termini di sopravvivenza e sopravvivenza libera da progressione non vi è indicazioni ad effettuare il monitoraggio della MMR al di fuori di trials clinici.

    Qual’ è il ruolo del trapianto nel trattamento della LLC?

    Negli ultimi decenni il miglioramento della definizione biologica della malattia e la messa a punto di nuove strategie terapeutiche hanno permesso di migliorare il numero, la durata e la qualità delle risposte ottenute. Nello stesso tempo i progressi delle tecnologie trapiantologiche e l’implementazione delle terapie di supporto hanno consentito un notevole miglioramento dei risultati ottenuti con tale procedura, principalmente in termini di riduzione della mortalità correlata alle complicanze.
    Il trapianto di midollo osseo allogenico ha dimostrato di poter indurre risposte cliniche prolungate, con progressiva negativizzazione del residuo leucemico in una parte dei casi grazie all’effetto immunomediato. La sopravvivenza a 5 anni è di circa il 50% e la mortalità legata al trapianto del 20% circa, dovuta principalmente alle complicanze infettive ed alla reazione delle cellule trapiantate contro l’organismo ospite (graft versus host disease).
    L’opzione trapiantologica deve essere presa in considerazione e discussa in pazienti selezionati tra coloro nei quali la malattia sia risultata resistente o recidivata e che abbia risposto ai nuovi farmaci inibitori (ibrutinib o idelalisib) in alternativa alla prosecuzione della terapia, specialmente in caso di presenza di delezione 17p/mutazioni di TP53. Candidati a un approccio trapiantologico sono inoltre i pazienti giovani e in buone condizioni che non abbiano risposto o che siano progrediti dopo terapia di prima linea con inibitori del BCR signaling
    Trapianto allogenico da donatore familiare HLA compatibile. Nonostante il buon controllo della malattia che ottiene l’autotrapianto di midollo osseo, la gran parte dei pazienti è destinata a recidivare nell’arco di tempo di alcuni anni. Con lo scopo di migliorare questi risultati, è stato introdotto nel trattamento della LLC il trapianto di midollo osseo allogenico. I dati iniziali relativi all’impiego di questo tipo di procedura hanno dimostrato che il trapianto allogenico è in grado di indurre una remissione completa duratura anche nei pazienti refrattari ai trattamenti convenzionali. Il trapianto allogenico deve la sua elevata attività terapeutica non tanto all’azione dei farmaci chemioterapici, ma all’instaurarsi di una vera e propria immunoterapia adottiva esercitata dal sistema immunitario del donatore contro le cellule leucemiche del ricevente (GVL). Infatti, l’allotrapianto non si limita a sostituire il midollo osseo del paziente con quello di un donatore sano ma comporta anche il trasferimento di un nuovo sistema immunitario dal donatore al ricevente.
    L’indicazione al trapianto allogenico dipende da numerosi fattori, quali l’età del paziente e le caratteristiche prognostiche della malattia. Attualmente il trapianto allogenico può essere considerato come una possibile scelta terapeutica in pazienti con età Trapianto allogenico a ridotta intensità (non mieloablativi). Fino a pochi anni fa era opinione comune che la chemioterapia di preparazione al trapianto allogenico, il cosiddetto regime di condizionamento, fosse un presupposto indispensabile per distruggere le cellule tumorali dell’ospite e per fare spazio fisicamente al nuovo midollo che veniva trapiantato. Questa visione non teneva conto del ruolo fondamentale che riveste il sistema immunitario del donatore; infatti la dimostrazione dell’attività svolta dalle cellule immunocompetenti del donatore, infuse con il trapianto, per il controllo e l’eradicazione delle cellule tumorali residue dell’ospite, ha portato in questi ultimi anni ad un nuovo e affascinante concetto di allotrapianto con riduzione di intensità dei protocolli di condizionamento, il cosiddetto allotrapianto a ridotta intensità. E’ un particolare tipo di trapianto caratterizzato dalla somministrazione di farmaci ad attività prevalentemente immunosoppressiva e con una tossicità d’organo trascurabile, o comunque ridotta rispetto ai regimi di condizionamento convenzionali. Lo scopo è quello di permettere ugualmente un buon attecchimento delle cellule staminali allogeniche del donatore, con un duplice risultato: ridurre i rischi di tossicità e quindi di mortalità associata al trapianto e mantenere una buona efficacia terapeutica sulla patologia tumorale.
    I dati più recenti mostrano come il trapianto di midollo osseo allogenico non mieloablativo abbia sostanzialmente raggiunto questi obiettivi ed il suo impiego sta entrando nella routine di numerosi centri ematologici di avanguardia. In effetti in questi ultimi anni la procedura di allotrapianto a ridotta intensità è stata sempre più utilizzata, soprattutto in considerazione dei minori effetti collaterali rispetto al trapianto allogenico convenzionale. Riducendo le complicanze legate alla procedura trapiantologica può quindi essere offerta una possibilità di cura anche a pazienti con età compresa tra i 65 e i 70 anni e pazienti più giovani con patologie concomitanti (co-morbidità) per i quali il trapianto allogenico convenzionale può risultare fortemente controindicato. Il breve periodo di osservazione non ci consente di affermare che questa procedura darà a lungo termine i risultati del trapianto allogenico convenzionale; al momento comunque rappresenta un’opzione promettente per il trattamento di alcune neoplasie ematologiche come la LLC, i linfomi ed il mieloma multiplo.

    Trapianto allogenico da donatore da banca. Per ragioni genetiche, solo un terzo dei pazienti che hanno fratelli o sorelle possiede un donatore familiare compatibile e può pertanto ricevere un trapianto di midollo osseo allogenico. Nei rimanenti casi, qualora fosse presente l’indicazione ad un trapianto allogenico, è possibile ricercare un donatore HLA identico nei Registri Internazionali dei donatori di midollo osseo. Solo pazienti con determinate caratteristiche e con età inferiore a 70 anni possono accedere ai Registri Internazionali dei donatori di midollo osseo. Una volta individuato un potenziale donatore, evento che si verifica nel 50-70% dei casi, può essere eseguito il trapianto, che, sostanzialmente, è del tutto simile a quanto già descritto nel caso di donatore familiare. Va tuttavia ricordato che nel caso di trapianto da donatore da banca esiste un rischio più elevato di malattia da trapianto contro l’ospite, motivo per cui viene mantenuto un maggiore livello di immunosoppressione. La ricerca del donatore richiede come minimo un periodo di tempo variabile tra i 3 e i 6 mesi, pertanto la possibilità di utilizzare questa opzione va considerata per tempo.

    La Divisione di Ematologia dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda
    Alla luce di quanto visto fin ora risulta chiaro che una appropriata gestione clinica del paziente è imprescindibile dalla scelta di strategie terapeutiche rischio-correlate. Ne deriva pertanto la fondamentale importanza di una corretta collocazione prognostica del paziente al momento della diagnosi e dell’eventuale indicazione al trattamento. La divisone di ematologia dell’Ospedale di Niguarda garantisce un adeguato inquadramento diagnostico e prognostico dei pazienti affetti da patologie linfoproliferative e in particolare da Leucemia Linfatica Cronica grazie ad una stretta collaborazione e integrazione tra le varie discipline.
    Il programma terapeutico viene stabilito sulla base delle caratteristiche cliniche del paziente e dei fattori prognostici della malattia. A questo riguardo la divisione di ematologia dell’Ospedale Niguarda offre le più aggiornate forme di terapia e procedure trapiantologiche garantendo terapie di supporto all’avanguardia. Sono inoltre attualmente attive sperimentazioni cliniche su scala internazionale sull’utilizzo di nuovi farmaci e nuove modalità di cure. Viene garantita in questo modo al paziente la disponibilità di farmaci e strategie terapeutiche innovative.

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