Leucemia Mieloide Cronica

Che cos’è un leucemia Mieloide Cronica?
La Leucemia mieloide cronica (LMC) è un tumore delle cellule del sangue, caratterizzato dalla proliferazione incontrollata delle cellule staminali midollari. Appartiene al gruppo delle sindromi mieloproliferative croniche e si caratterizza per la presenza di un marcatore caratteristico: il cromosoma Phladelphia. Questo cromosoma, non presente nelle cellule normali (midollari e non), deriva da uno scambio di materiale (traslocazione) tra il cromosoma 9 e il 22 e contiene un gene di fusione patologico, denominato BCR-ABL, responsabile della produzione di una proteina appartenente alla famiglia delle tirosino-chinasi, deputata alla regolazione della proliferazione cellulare.
La proteina ibrida bcr-abl ha un’attività elevata e costitutivamente attivata, che determina la continua moltiplicazione delle cellule del sangue, in particolare dei globuli bianchi, causandone l’accumulo nel midollo osseo e nel sangue e determinando il quadro di leucemia.

Che frequenza ha?
La Leucemia Mieloide Cronica è una patologia rara, con una frequenza pari a 1-2 casi su 100.000 abitanti nella popolazione adulta. L’incidenza aumenta con l’età: è molto rara in età pediatrica mentre in oltre il 30% dei casi viene diagnosticata dopo i 60 anni.

Quali sono le cause? Si trasmette geneticamente?
Non sono note ad oggi delle cause specifiche responsabili dell’insorgenza della Leucemia Mieloide Cronica. Sono stati individuati alcuni agenti favorenti, tra i quali il più importante è l’esposizione a radiazioni ionizzanti.
Nella maggior parte dei casi tuttavia la malattia insorge in assenza di fattori di rischio noti. La LMC non si eredita né si trasmette geneticamente.

Quali sono i sintomi e qual è il decorso della LMC? Come si modifica la qualità di vita dei pazienti?
Spesso la diagnosi viene posta in completo benessere, per il riscontro di alterazioni di esami del sangue eseguiti di routine. Quando presenti, tuttavia, i principali sintomi sono aspecifici e per lo più legati alle alterazioni dell’emocromo o all’aumento di volume di milza e fegato. Stanchezza, affaticabilità, palpitazioni possono essere legati alla presenza di anemia. In caso di piastrinopenia possono essere presenti sanguinamenti di varia entità. L’aumento di volume della milza è spesso responsabile di senso di ingombro addominale, sazietà precoce dopo i pasti o dolore al fianco sinistro. Posso poi essere presenti febbricola, sudorazioni soprattutto notturne, dolori ossei o muscolari.
La storia della malattia prevede tre fasi:
– una fase cronica in cui il midollo produce una grande quantità di globuli bianchi, che si accumulano nel midollo e nel sangue in vari stadi di maturazione. Questa fase dura normalmente qualche anno ed è quella in cui più spesso si esegue la diagnosi
– in assenza di terapia la malattia progredisce in tempo variabile a fasi più aggressive: la fase accelerata e la fase blastica, quest’ultima caratterizzata dalla perdita della maturazione cellulare e dall’accumulo in circolo di cellule immature, chiamate appunto, blasti.
In casi rari la malattia si può presentare in fase accelerata o blastica anche all’esordio di malattia.

A quali accertamenti bisogna sottoporsi per confermare la diagnosi?
L’emocromo mostra un incremento dei globuli bianchi (leucocitosi), talvolta anche molto marcato, al quale si può associare un certo grado di anemia e una variazione del numero di piastrine.
Per confermare la diagnosi vengono poi eseguite delle indagini di primo livello su sangue periferico: uno striscio che viene letto al microscopio per valutare la morfologia delle cellule del sangue e in particolar modo dei globuli bianchi, e un test molecolare che rivela la presenza del gene di fusione bcr-abl.
In seconda battuta, è necessario effettuare la valutazione midollare per confermare la traslocazione cromosomica all’analisi citogenetica e la presenza di eventuali altre alterazioni.
In base ad alcuni parametri clinici e di laboratorio all’esordio (dimensioni della milza, numero di piastrine, presenza di blasti nel sangue, percentuale di eosinofili e basofili), è inoltre possibile determinare la classe di rischio della malattia (alto, intermedio, basso) e avere quindi informazioni utili a scopo prognostico.

Come si cura?
Per lungo tempo la terapia per la LMC si è basata sull’oncocarbide, un chemioterapico orale usato per contenere la leucocitosi, ma che non modificava l’andamento della malattia; un’altra opzione terapeutica era rappresentata dall’interferone, efficace, ma spesso mal tollerato.
Da circa 15 anni invece, la storia naturale della malattia e la speranza di sopravvivenza dei pazienti sono state radicalmente modificate dalla scoperta di una classe di farmaci, gli inibitori di tirosin-kinasi (TKI), in grado di agire specificamente sul meccanismo patogenetico della malattia, bloccando il funzionamento della proteina aberrante e quindi la proliferazione delle cellule leucemiche. Si tratta di uno dei migliori esempi di “terapia molecolare” o “target therapy”.
Con l’avvento dei TKI, La sopravvivenza dei pazienti affetti da LMC è oggi sostanzialmente sovrapponibile a quella della popolazione generale.
A differenza dei chemioterapici classici, non dotati di attività specifica, tali farmaci sono selettivi per le cellule malate, mentre sono inattivi nei confronti delle cellule normali; si tratta di farmaci normalmente ben tollerati.
Il capostipite di questa classe di farmaci è l’Imatinib (Glivec), a cui negli ultimi anni si sono aggiunte altre molecole, dotate di maggior potenza e di maggior affinità per la proteina bersaglio. Tra gli inibitori di seconda generazione troviamo Nilotinib (Tasigna) e Dasatinib (Sprycel).
Per la prima linea di terapia, oggi è possibile scegliere uno di questi tre farmaci, in base alle caratteristiche della malattia al momento della diagnosi e alle copatologie del paziente.
Per i pazienti anziani e nei casi di malattia a basso rischio, il farmaco più comunemente utilizzato è l’Imatinib. In caso di intolleranza o mancata risposta al farmaco di prima linea, è possibile cambiare molecola, scegliendo tra quelli sopracitati o tra altri due farmaci, più nuovi, Bosutinib (Bosulif) e Ponatinib (Iclusig).
Prima di intraprendere una terapia di seconda linea per mancata risposta è utile eseguire delle indagini di approfondimento per valutare la presenza di mutazioni secondarie che possono causare resistenza alle terapie. Tra queste mutazioni, la più temibile è la T315I, che conferisce resistenza a tutti gli inibitori di tirosin kinasi, tranne Ponatinib.
La terapia con TKI è cronica e, al di fuori di studi clinici, prosegue per tutta la vita. I farmaci hanno una formulazione in compresse e vengono assunti quotidianamente.

Quali sono gli effetti collaterali degli inibitori di Tirosin Kinasi?
Sebbene nella maggior parte dei casi i TKI siano ben tollerati, e nonostante la selettività per le cellule malate, la terapia non è scevra da effetti collaterali, legati all’azione dei farmaci su altri bersagli molecolari oltre alla proteina responsabile della LMC.
Oltre alla tossicità ematologica, che si manifesta con l’abbassamento dei valori delle cellule del sangue (globuli bianchi, globuli rossi e piastrine) ed è comune a tutti i TKI, gli effetti indesiderati sono diversi da molecola a molecola e in alcuni casi possono essere anche invalidanti o gravi. Pertanto è importante avvisare il Curante in caso di comparsa di nuovi sintomi o disturbi.
Infine è importante tenere presente, soprattutto nei pazienti che assumono terapie croniche per patologie diverse dalla LMC, le numerose interazioni che i TKI presentano con altri farmaci.
Gli effetti collaterali di imatinib sono dolori muscolari e crampi, aumento di peso e gonfiore intorno agli occhi dovuti a ritenzione idrica, diarrea. Questi sintomi possono essere risolti sospendendo temporaneamente l’inibitore o riducendo il dosaggio, e comunque tendono a diminuire con il passare del tempo. 
Altri inibitori delle tirosin chinasi hanno effetti collaterali specifici diversi, come per esempio problemi polmonari (versamento pleurico, più frequente con dasatinib), diarrea (bosutinib), alterazione dei lipidi e della glicemia (nilotinib), problemi cardiovascolari (nilotinib e ponatinib). Tuttavia, gli effetti collaterali gravi sono rari.

Con che frequenza è necessario eseguire i controlli?
Oltre a modificare la prospettiva di sopravvivenza dei pazienti, l’avvento dei TKI ha cambiato gli obiettivi del trattamento e il modo di monitorare la malattia. Lo scopo della terapia è quello di ottenere il controllo della patologia (non si può parlare di eradicazione), riducendo al minimo la proliferazione delle cellule malate.
Si riconoscono oggi tre livelli di risposta, progressivamente più profonda:
– la risposta ematologica, ovvero la normalizzazione dei valori dell’emocromo.
– la risposta citogenetica che consiste nella riduzione e scomparsa delle cellule portatici della traslocazione cromosomica t(9;22); il ripristino di un assetto cromosomico normale viene definito risposta citogenetica completa. Viene valutata attraverso l’esame del cariotipo, che studia i cromosomi.
– la risposta molecolare che consiste nella riduzione (raramente la scomparsa) del prodotto del gene mutato, che viene studiato attraverso un fine esame chiamato PCR. La risposta molecolare maggiore è la più profonda e rappresenta l’obiettivo della terapia, in quanto è quella correlata a un miglior controllo della malattia.
All’inizio della terapia, gli esami del sangue vengono monitorati con maggior frequenza, sia per controllare la normalizzazione dell’emocromo e la risoluzione della leucocitosi, sia per valutare eventuali tossicità legate ai farmaci. Una volta stabilizzato l’emocromo, gli esami vengono eseguiti meno frequentemente (ogni due-tre mesi), se non presenti complicanze.
Gli esami per il monitoraggio della risposta alla terapia, vengono eseguiti su midollo osseo durante il primo anno di trattamento a 3, 6, 9 e 12 mesi dall’inizio della terapia. Successivamente al primo anno, in caso di ottenimento della risposta citogenetica completa, il controllo della malattia viene eseguito mediante l’indagine molecolare solo da sangue periferico.
L’ottenimento o meno della risposta citogenetica e molecolare in determinate tempistiche, determina la bontà della risposta al trattamento, che viene definita:
– risposta ottimale: è la miglior risposta ottenibile, significa che il farmaco scelto è efficace e va proseguito.
– fallimento: significa che il farmaco non è efficace (o non lo è abbastanza) e bisogna quindi cambiare molecola.
– risposta sub-ottimale: è un quadro intermedio; in questi casi non vi è stretta indicazione a cambiare farmaco, ma la terapia viene proseguita con un monitoraggio più stretto, e iniziando a valutare altre opzioni terapeutiche.

E’ possibile guarire dalla LMC e sospendere i controlli e la terapia?
Le percentuali di risposta agli inibitori di tirosin kinasi sono elevate. Tutti e tre i farmaci disponibili in prima linea hanno dimostrato tassi di ottenimento della risposta completa citogenetica e della risposta molecolare maggiore spesso superiori al 70-80%. Quello che differenzia le tre molecole è la velocità con cui la risposta molecolare maggiore si instaura, più precocemente con Nilotinib e Dasatinib rispetto a Imatinib.
La terapia con TKI nasce come terapia cronica, da proseguire per tutta la vita. Tuttavia negli ultimi anni sono stati eseguiti studi per valutare la possibilità di sospendere il trattamento con Glivec nei pazienti con risposta molecolare profonda e stabile nel tempo. Solo una minoranza di pazienti mantengono la risposta dopo sospensione del farmaco (circa il 40% secondo gli studi), tuttavia, in coloro che devono riprendere il trattamento si assiste ad un rapido ripristino della risposta.

Quando è necessario sottoporsi ad un trapianto di midollo?
Il trapianto di midollo da donatore è ad oggi l’unico approccio che si é dimostrato in grado di “guarire” il paziente ed eradicare la malattia ( cosa che non é ancora stato dimostrata con gli inibitori delle tirosinchinasi che vengono somministrati solo dai primi anni 2000). Tuttavia è gravato da un tasso di complicanze elevate e da una mortalità del 10-15% a seconda della fase di malattia in cui viene eseguito. E’ quindi riservato a gruppi selezionati di pazienti: pazienti pediatrici, pazienti che non ottengono risposta ad almeno 2 inibitori delle tirosin-chinasi, o che presentano una malattia in fase accelerata o blastica.

E’ possibile affrontare una gravidanza?
Non ci sono dati sicuri sugli effetti dei TKI sul feto e pertanto non è consigliabile proseguire il trattamento durante la gravidanza. La decisione di affrontare una gravidanza, che richiede la sospensione del farmaco, la gestione della terapia e il tipo di monitoraggio da effettuare in corso di gravidanza deve essere valutata caso per caso con il medico.

Copyright © 2019 Fondazione Malattie del Sangue Onlus.