Andrea

“Sono ottimista oggi e lo ero allora. Una ricetta per la vita è avere lo spirito giusto, ti aiuta sempre. Essere combattivi per superare gli ostacoli”

La ricetta della crème caramel di Andrea rimarrà un segreto. Ma non è escluso che a renderla speciale sia il fatto che la cottura avviene in pentola a pressione. Andrea Capelli oggi ha 32 anni. Quando si ammalò era appena adolescente. Un quindicenne pieno di energia, bravo a scuola e nello sport, musicista nella banda della sua città, preso da mille hobby e interessi. Il suo racconto di quei giorni sicuramente drammatici è quello di un viaggio appena un po’ complicato e con qualche incognita. “Sono ottimista oggi e lo ero allora. Una ricetta per la vita è avere lo spirito giusto, ti aiuta sempre. Essere combattivi per superare gli ostacoli”, si giustifica il protagonista di questa nuova puntata di Bella Storia che vi raccontiamo partendo dalla fine.

“Ho capito che uscivo dal tunnel quando ho sentito la parola cibo. Quando sono tornato a casa dopo il trapianto di midollo la prima cosa che ho fatto è stato mangiare la pizza. Un’altra cosa fantastica era la crème caramel, fatta in pentola a pressione. Perché nel primo periodo dopo il trapianto anche il cibo va sterilizzato. Prima c’era stato un lungo periodo di digiuno assoluto”.

Non sta fermo un attimo oggi come a quindici anni Andrea. lavora nell’ufficio marketing di una azienda elettronica di accessori per auto e moto. “Suono il clarinetto e i piatti nella banda di Abbiategrasso, la mia città. Viaggio, amo gli sport, dalla canoa al surf, ma anche correre”.

La storia della malattia inizia quando ha 15 anni. “Si presentò come leucemia mieloide cronica. Andavo al liceo scientifico, suonavo, facevo sport. Un giorno cominciai ad accusare un dolore anomalo al braccio. Si pensò ad un reumatismo. Invece, fatti gli esami, mi trovai in cura dagli ematologi. Era il 1998 e quello fu il primo ricovero della mia vita. Mi trovai al Talamona assieme a tanti coetanei: appena arrivato, entrai nella sala ricreativa e quelli mi dissero: Non fare l’asociale, vieni a giocare a carte”. Compagni di avventura li chiama oggi. “Facevamo le pizzate una sera sì e una no, a tratti mi sembrava una vacanza”. Fatti gli esami, decisa la cura, Andrea tornò a casa e alla vita normale. “Non dissi nulla a scuola, ero evasivo, non volevo essere emarginato dagli sport. Smisi solo l’atletica leggera. Ma, dopo qualche mese, fui ricoverato a Niguarda, perché la malattia s’era trasformata in leucemia acuta. E lì la questione divenne più complicata. Il trapianto, che già mi era stato prospettato, divenne una urgenza. La mia grande fortuna è stato trovare un donatore”.

Il suo donatore di midollo è una donna. Andrea è riuscito a conoscerla. “Quando ho fatto il trapianto la normativa diceva che ci si poteva scrivere, filtrati dai centri trapianti che censuravano informazioni personali. Dopo tre anni, era possibile chiedere di conoscersi. Io e la mia donatrice abbiamo cominciato a scriverci. A metà percorso, è cambiata la normativa, non è più stato possibile incontrarsi. Ma c’era qualche dettaglio che ci ha permesso di trovarci. Lei è una ragazza piemontese di qualche anno più grande. Ha chiamato suo figlio Andrea ed è motivo di orgoglio per me. Non sono tanti i donatori, non quanti dovrebbero, eppure oggi con le cellule staminali è tutto più semplice. Credo ci sia molta confusione tra midollo osseo e spinale. Così come oggi parlando di trapianto si pensa a chissà quale operazione, invece è solo una sacca di sangue diversa con la quale ti fanno una trasfusione”.

Andrea ammette di aver preso ‘una batosta’ quando gli hanno detto che la sua malattia aveva cambiato aspetto ed era diventata molto aggressiva. “Ero un ragazzo e forse anche per questo assolutamente convinto che ne sarei uscito. Per natura non mi fascio la testa prima di averla rotta. Ricordo il Capodanno del 1998. Avevo fatto gli esami di controllo qualche giorno prima e quel Capodanno mi ricoverarono d’urgenza. Leucemia acuta. Cominciai così la chemioterapia, pesante, in attesa di trapianto. Prima l’autotrapianto, poi il trapianto da donatore. Una procedura nuova in quel momento. Non persi l’anno di scuola. Ero bravo e i miei insegnanti mi aiutarono a tornare dopo le cure direttamente in quarta, nonostante la lunga assenza. Un bel jolly certo. Anche se tornare a scuola dopo il trapianto volle dire fare un anno e mezzo di scuola con la mascherina. In realtà allora capii che i miei compagni di classe sapevano molto più di quanto io immaginassi della malattia. Mi mandavano segnali dall’esterno, perché in camera sterile potevano entrare due persone al giorno, una alla volta, e dunque i miei familiari. Però avevo un cellulare sterilizzato e chiuso in un sacchetto ermetico e con quello comunicavo con il mondo. E’ un mondo a sé quello del trapianto. Sei lì, in una camera sterile, tutto quello che ti portano è sterilizzato, anche le parole crociate, si crea una barriera, delle persone vedi solo gli occhi. Giornate lunghe, trascorse guardando film, ascoltando i miei che mi leggevano il giornale, non si poteva mangiare. Sarebbe stata una bella distrazione… Un giorno ho capito che andava bene, piccoli passi ogni giorno, i valori del sangue che cambiano, tornano a salire dallo zero assoluto, globuli rossi, piastrine. Mai arrendersi. I miei genitori sono stati tosti. La dottoressa Marenco del centro trapianti una guerriera vera. Nessuno di loro s’è mai arreso”.

Condividi questo post