Fabiola

Una figura minuta e sullo sfondo un grumo di case diroccate in pietra. Ecco Fabiola Quieti e alle sue spalle il borgo di Lottano, in Val Chiavenna. Oggi è abitato da una manciata di residenti. Domani, chissà. Perché Fabiola, 31 anni, di professione architetto e assistente di laboratorio al Politecnico, coltiva il sogno di farlo rinascere e in questa impresa ha già trascinato sindaci e personalità, tra loro il critico d’arte Philippe Daverio.

La malattia piomba come un fulmine a ciel sereno nella vita di Fabiola. “Era il 2006 e mi ero appena laureata a pieni voti in architettura, la triennale. Pochi giorni dopo la discussione della tesi, faccio degli esami del sangue di routine, un controllo annuale rinviato negli ultimi mesi, perché ero concentrata negli studi. Quando ho ritirato gli esiti, pur non essendo un’esperta, mi sono accorta che qualcosa non andava, tutti i valori dell’emocromo erano molto bassi. E ancora oggi mi domando perché il laboratorio d’analisi non mi abbia chiamato subito. Infatti, a una settimana di distanza, quando sono andata a ritirarli e li ho portati dal mio medico, lui è sbiancato, mi ha visitato e poi immediatamente inviato al Pronto Soccorso di Bollate”. Era stanca Fabiola ma convinta che la colpa fosse dello stress dettato dagli studi. “Sono passati ancora alcuni giorni prima della diagnosi. Da Bollate, dove ho ripetuto gli esami del sangue, mi hanno trasferita al Sacco, in isolamento, perché le mie difese immunitarie erano azzerate. Nessuno avanzava ipotesi, serviva prima fare degli esami specifici, ma tutti avevano lo sguardo angosciato. Ricordo che non ho fatto molte domande, ma il mio pensiero è corso a mio cuginetto che da bambino s’era ammalato di leucemia. Ne morì. Oggi avrebbe avuto più chance”. Fu la primaria del reparto infettivi ad insistere per chiamare l’Ematologia di Niguarda. E fu poi là, al reparto Talamona, che a Fabiola fu detto il nome della malattia: leucemia mieloide promielocitica acuta. Il 3 novembre era arrivata al Sacco poi da lì al Niguarda, il primo esame del midollo ed ecco la diagnosi.

Fabiola racconta: “Mi è rimasto impresso il momento in cui la dottoressa Nosari ci ha dato il responso: eravamo nello studio medico con i miei genitori e il mio fidanzato. Non ho un’ottima memoria ma quel momento ce l’ho proprio impresso in ogni dettaglio. Prima fai domande, poi piangi, alla fine per spirito di sopravvivenza accetti la malattia. La accetti e ti trovi a doverlo dire agli amici e ogni volta non puoi sfuggire al loro choc e devi spiegare quel che succede quando non è chiaro neppure a te. La parola leucemia da quel giorno mi è sempre ronzata nella testa come un rumore fastidioso. Non ero mai stata in ospedale e i primi giorni è stato come ricevere una doccia fredda dietro l’altra. Finché entri in una sorta di mondo parallelo e cominci a familiarizzare con la malattia e tutti gli annessi.

Mi sono sempre fidata del Talamona, mai cercato informazioni sul web, mai dubitato della professionalità dei medici né degli infermieri, sempre pensato che ero in ottime mani, lo capivo da ogni dettaglio del reparto e dai modi delle sue persone. Non lo dico per retorica, non ho mai smesso di avere questa buona sensazione nei loro confronti.”

Non è mai un percorso in discesa la lotta con una leucemia e quattro cicli di chemio si succedono uno all’altro, così i ricoveri. “Pesante il primo, un mese e mezzo ricoverata in sub-intensiva, il periodo più duro. Vedevo solo familiari e fidanzato per poche ore al giorno. Stavo fisicamente male, non guardavo la tv, né leggevo libri, né usavo molto il telefono. Il tempo è trascorso grazie ai manicaretti della mamma, le poesie del papà sulla tovaglietta del pranzo, le visite dei miei fratelli e quelle fuoriorario del mio fidanzato. E poi c’era il via vai continuo degli infermieri, tutti giovani, uno più simpatico dell’altro. Tutti sempre rigorosamente con mascherina e calzari e, quando uscivo in corridoio, mascherina anche per me. Quattro cicli di chemio significa che appena stai meglio devi tornare in ospedale”. Mi sono sentita davvero malata quando allo specchio mi sono vista senza neanche un capello, pallida e magra: leucemia, ora si vedeva proprio che ero malata. Ma in fondo l’elemento figurativo ti fa accettare la cosa”. Fabiola ha archiviato le domande che a lungo l’hanno assillata sulle cause della sua malattia. Troppe le sensazioni che si sono sedimentate durante i mesi di cura: la famiglia sempre in prima linea, tanti nuovi amici in reparto, le visite quotidiane, gli esami, le attese degli esiti, gli amici di sempre, vicini anche se non potevo vederli…un susseguirsi ininterrotto di sensazioni forti. L’ultimo ricovero è del marzo 2007. “Durante l’ultimo ricovero sono stata male i primi giorni, poi è stato un mese tra risate con gli infermieri e le compagne di stanza, serate a chiacchierare fino a tardi e partite di briscola con gli uomini. La mia camera ormai era piena di foto e sembrava meno triste. Alla fine mi sono usciti i lacrimoni quando mi hanno dimessa”. Poi due anni di mantenimento con farmaci da prendere quotidianamente, iniezioni settimanali, controlli, un midollo una volta al mese, esami del sangue una volta alla settimana, come un cordone ombelicale che ti tiene legato all’ospedale, sempre seguita dalla dottoressa Mancini, che è diventata una sorta di seconda mamma. Nel frattempo, di pari passo con il periodo di mantenimento, ho ripreso l’università e finito la specialistica. Mi sono ricresciuti i capelli. La seccatura, nei 2 anni di cure a casa, è che comunque non devi stare in luoghi affollati, le tue difese fanno su e giù, ti senti stanca. Niente cinema, niente metrò, niente aperitivi e in università niente aule troppo affollate. “Fino al marzo 2014, quando la dottoressa Mancini mi ha detto: questo è l’ultimo midollo e ora ci vediamo una volta all’anno. Una bella notizia, a cui, forse per scaramanzia, cerco di non pensare troppo. Oramai le cose brutte un po’ me le sono dimenticate e quel che resta sono tutte le belle persone che ho conosciuto e soprattutto la forza che ho scoperto nella mia famiglia e negli amici. Non mi dispiace parlare di questa mia “esperienza”, l’unica remora è che possa generare compassione in chi ascolta, mentre vorrei che venisse solo apprezzato l’impegno che ci abbiamo messo tutti: famiglia, medici, infermieri, amici e io.

Oggi sono felice di quel che sono, faccio l’architetto, lavoro ormai da 5 anni, amo andare a cavallo e voglio vedere il borgo di Lottano riattivato: speriamo!

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