Marco
Marco , 45 anni, di San Colombano al Lambro, una moglie e un figlio quindicenne, di professione elettricista, si racconta, partendo dalla fine di una battaglia con la malattia che è durata quattro anni. In trincea non è mai stato solo.
“è stata dura. Quando il dottor Cairoli mi disse ‘Marco, devi fare un secondo trapianto di midollo’, confesso che un paio di pugni in ascensore, mentre uscivo dall’ospedale, li ho tirati. Il primo trapianto era una novità. Il secondo sapevo cosa mi aspettava, stare male dopo la radioterapia e chemioterapia , vomitare l’anima, la ‘prigionia’ in isolamento. Ma non avevo alternative e dovevo-volevo uscirne”.
Marco Dalcerri, 45 anni, di San Colombano al Lambro, una moglie e un figlio quindicenne, di professione elettricista, si racconta, partendo dalla fine di una battaglia con la malattia che è durata quattro anni. In trincea non è mai stato solo. Con lui hanno lottato la moglie, la famiglia. Ad aspettarlo a casa, tra una chemio e un trapianto, c’era sempre il piccolo Davide, una ragione in più per combattere come un leone.
“Le prime avvisaglie del mattone che mi sarebbe caduto in testa arrivarono nell’ottobre del 96. Un dolore sotto l’ascella, una diagnosi (di ciste) in un piccolo ospedale del lodigiano, esami del sangue, poi il trasferimento in un centro più attrezzato, i valori ematici sballati, l’analisi del midollo… la diagnosi di mielodisplasia. Sei mesi così, tra prelievi e cortisone. Finché andiamo a Niguarda. E qui ecco la dottoressa Morra… la ringrazierò sempre…studia le cartelle e dice: ‘Così non va, occorre un trapianto di midollo’”. E via con la ricerca di un donatore, fratello, sorella, poi i genitori, ma nessuno è compatibile. Poi la ricerca nel registro dei donatori. In mezzo un colloquio con la dottoressa. “Avete figli? Domanda a me a mia moglie – continua Marco – Io rispondo: no, siamo sposati da appena due anni, mi sono ammalato, forse, un domani, aspettiamo un momentino, vedremo. E lei: ‘La malattia non si passa al bambino. Ascoltatemi, cercate un figlio, sarà una gioia, intanto noi cerchiamo il donatore. Ci sarà il rischio che la nascita si accavalli con il trapianto, ma quel figlio sarà la vostra gioia’. Quel giorno siamo usciti dalla visita con un peso sul cuore. Con il pensiero del trapianto, senza immaginare il domani”. Ma la macchina si è già messa in moto: si rifanno gli esami, il midollo, si apre la banca dati. “E poi la dottoressa mi rimanda a lavorare. Part time, perché mi stancavo molto. Quasi una vita normale. Io e mia moglie ci guardiamo in faccia e decidiamo di darle ascolto. Mia moglie rimane incinta. E a me torna la febbre. Per farla breve, trovano un donatore – l’uomo che mi darà una nuova vita – a Verona, mio coetaneo, stessa età, stesso peso. Nascerà mio figlio Davide, il 3 marzo del 98: 3 chili e 800 grammi di peso, e io entro in ospedale per la preparazione al trapianto neppure due settimane dopo”.
Marco fa una breve pausa. Pensa, dice, al donatore. “Tante volte ho cercato di trovarlo. Ma non si può. Gli ho mandato una lettera, attraverso il registro di Genova. E’ mio fratello, mi ha ridato la vita due volte, l’aveva detto donandomi il midollo. Se ci sarà ancora bisogno, sono qui. E c’è stato bisogno”. Ma restiamo a quel primo trapianto. “Un mese di camera sterile, è come stare in prigione. Vivi rinchiuso, isolato, fai la doccia in un catino sterile, nella stanza entrava solo un infermiere con i suoi armamentari, camici, cuffia, mascherina sterili, brocche d’acqua anche quella sterile…quando si facevano chemio e radio le docce erano due al giorno. Una settimana prima del trapianto, l’operazione per inserire nella giugulare il tubicino che porterà cibo e terapia. E per un anno ti tieni due rubinettini nel petto…”.
Finalmente il ritorno a casa. “E qui la gioia di vedere il bambino, ho capito cosa voleva dirci la dottoressa Morra. Davide aveva due mesi, mia moglie era venuta pochissimo in ospedale. Rivederli fu un’emozione che ancora oggi mi fa commuovere…”.
È un saliscendi il primo anno trascorso a casa. “Con cibo al forno o cotto in pentola a pressione, niente di crudo, sognavo pane e salame! Ma qualcosa non torna nei miei esami, di nuovo”. E’ l’estate del ’99. Marco si ammala, c’è una recidiva di mielodisplasia, chemio ancora, una broncopolmonite. In autunno, i medici fanno consulto e decidono: nuovo trapianto. “Ci sono volti che non dimenticherai mai più. Walter e Piera, che mi portavano una montagna di pastiglie da ingurgitare ogni giorno, 135 per l’esattezza, per tre giorni, Roberto che lavorava in laboratorio (fu proprio lui che si recò a Verona, i giorni dei trapianti a prendere la sacca VR501del mio fratello donatore), la dottoressa Intropido, la biologa che mi dava i ragguagli. La dottoressa Marenco che ha sempre preso le decisioni piu’ importanti. Ed ecco il secondo trapianto”. Quando pensa di essere fuori dal tunnel, Marco s’ammala, gravemente. “Il piccolo, che aveva ormai 2 anni, si prende un’influenza intestinale e io anche, perché avevo le difese immunitarie ridotte al lumicino. Torno in reparto 40 giorni, 5mesi esatti dopo il trapianto. Calo venti chili in pochi giorni. Ero 75 chili e sono arrivato a pesarne 52. Credetemi, è stata una battaglia dura. Non dico ancora ‘ho vinto’. Per scaramanzia. Sono trascorsi 15 anni. Ho ripreso a lavorare nel 2001. Il mio modo di vedere la vita è cambiato, radicalmente. Guardo gli altri con occhi diversi, sono felice di stare con la mia famiglia, di ascoltare un brano dei Queen, di seguire mio figlio a calcio. Quando ero in day hospital e vedevo gente malata come me che aveva già fatto il trapianto, che stava bene, ascoltavo i loro discorsi e mi dicevo: arriverà anche il mio turno. Di stare bene, di poter incoraggiare chi è all’inizio della battaglia”. Tanta voglia di vivere!
Da circa 10 anni sono volontario Admo e cerco di diffondere la cultura della donazione di midollo osseo, aiuto anche FMS con la loro grande raccolta tappi.